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 2022  aprile 30 Sabato calendario

Biografia di Luigi Lombardi Vallauri raccontata da lui stesso

Sotto il segno della paradossalità e di un evidente narcisismo mi riceve nella sua casa fiorentina Luigi Lombardi Vallauri. È un bell’uomo, di luminosa appariscenza: alto, magro, elegante. Vegetariano e animalista. Passeggia nel salotto mostrandomi di tanto in tanto qualche scartafaccio, o sgualciti libri orientali sottolineati e annotati con acribia. Di lui conoscevo la storia dell’espulsione dalla Cattolica. Buttato fuori per eccesso di eresia. 86 anni, filosofo del diritto e versatile frequentatore di tutto quanto la cultura asiatica ha riversato negli ultimi secoli sulle sponde europee e in particolare italiane. Si vanta di possedere una memoria prodigiosa e alla prova dei fatti sembra di sì: recita – quasi cantilenando – pezzi della Gita, per poi passare con estrema agilità a Goethe e a Dante o ad altri corpi santi della vecchia e intramontabile cultura europea. È una limpida giornata quella che ci accoglie. Dopo il nostro incontro si incamminerà con il proprio gruppo di meditazione verso qualche punto della campagna toscana. Non so se prenderlo sul serio oppure viverlo come un personaggio pittoresco. Il cibernetico Giuseppe Trautteur, che gli è amico da cinquant’anni, propenderebbe per la prima ipotesi.

La devo chiamare professore?
«Mi chiami come vuole, lo sono stato per quasi mezzo secolo».
Forse preferisce maestro.
«La parola mi suona familiare ma per lei sono Luigi. Ho cinque figli, una moglie e un passato ricco, anzi ricchissimo di cose da raccontare».
Dal cattolicesimo al buddismo. Un bel salto.
«Diciamo una liberazione. Provengo da una famiglia di cattolici illustri. Mio zio, Padre Riccardo Lombardi, era stato soprannominato “il microfono di Dio”.
Pensi cosa avrebbe combinato oggi grazie ai social.
Le sue prediche radiofoniche erano seguitissime. E quando parlava da un palco erano folle oceaniche a seguirlo».
Predicava una società cristiana sorretta da uno schietto anticomunismo.
«Anticomunista certo, ma soprattutto gesuita. In fondo è la carriera che avevo intrapreso. Del resto, in famiglia c’erano già un fratello e un cugino gesuiti. E poi una nonna che ha fondato la parte femminile dell’Azione Cattolica. Federico Lombardi, Provinciale dei gesuiti, è stato anche direttore dei programmi della Radio Vaticana».
E in mezzo a tutto questo ben di Dio cattolico, lei che fa?
«Divento la pecora nera».
Ma ama i gesuiti.
«Senza di essi non esisterebbe una Chiesa. Come sa lo stesso Papa Francesco è un gesuita. Abbiamo molte cose in comune».
Quali?
«Abbiamo origini piemontesi, lui astigiane, io cuneesi; siamo entrambi nati nel 1936 e poi mia madre è nata a Buenos Aires dove è nato Bergoglio. Perché abbiano fatto papa lui e non me è un mistero».
Forse lei non era abbastanza gesuita.
«Ah no! Ho frequentato quel mondo, ne conosco le pieghe più riposte. All’idea che mi facessi gesuita mio padre ha alzato il sopracciglio. E allora ho cominciato con lo studiare legge all’università, prima come storico del diritto e poi come filosofo del diritto. Ma non ho potuto resistere agli Esercizi spirituali di Ignazio de Loyola. Mi iscrissi perciò, in parallelo all’università Gregoriana. Si parlava e si discuteva quasi solo in latino. Capisce quale privilegio?».
Quale era il motivo che l’ha spinta alla Gregoriana?
«Ho scelto quell’università per pensare Dio. In tutti i corsi che ho frequentato non è mai stata pronunciata la parola “rivelazione”. Non c’è mai stato un problema legato alla fede. Si pretendeva che lo studio della filosofia e della teologia fosse rigorosamente razionale. Dio era semplicemente l’essere necessario. Lei sa che la scienza ha seri problemi a spiegare le origini del mondo?».
Mi sembra più interessata al suo svolgimento.
«Ma il mondo è fatto di cose e fenomeni che non si autospiegano. Allora o il mondo è schizzato fuori dal nulla, ma non è possibile, oppure è lì da un tempo infinito. Dio? La materia? Il buco nero? Il protone divino? Mentre possiamo spiegare tutte le cose del mondo il mondo non si spiega. Ma se dico che Dio è l’Essere necessario sto dicendo che è pura matematica e questa non ha bisogno del mondo per esistere».
Mi pare una sottigliezza degna di un gesuita.
«Quando mi presentai al cospetto del Padre Provinciale dei gesuiti manifestandogli la mia volontà di entrare nella Compagnia, mi guardò restando in silenzio. E allora gli chiesi: come fa Dio a riconoscere il mondo fisico senza violare le leggi della natura? Come fa a vegliare sulla storia umana con la sua infinita provvidenza senza compiere continui miracoli? Il Provinciale ruppe il silenzio: per ora si dedichi alla giurisprudenza».
Lei ha insegnato a lungo come professore di filosofia del diritto.
«Più di 40 anni, 21 dei quali all’Università Cattolica del Sacro Cuore».
Da quel posto fu allontanato. Perché?
«Diciamo per contrasto tra alcuni aspetti del mio insegnamento e la dottrina ufficiale della Chiesa. Fu istituito un processo al termine del quale venni espulso. Un processo senza contraddittorio, senza alcuna possibilità di difendermi».
Ma il motivo?
«I capi di accusa erano diversi. A cominciare dai miei dubbi sulla Trinità, sul fatto che Gesù fosse opera dello Spirito Santo, la transustanziazione eucaristica, l’infallibilità del Papa e soprattutto la mia posizione, netta e chiara, sull’inferno».
Cosa non la convinceva dell’inferno?
«Pensavo, in linea con il Beccaria, che il trattamento fosse contrario al senso dell’umanità. Una punizione che non tende alla rieducazione, che ti fa piombare lì dentro e poi buttano le chiavi, è contro l’articolo 27 della Costituzione. In quanto filosofo del diritto, ritenevo e ritengo che la dottrina del peccato originale fosse contraria al principio della responsabilità personale e che una pena eterna è sproporzionata alla rieducazione del condannato».
Come lei già altri illustri insegnanti furono cacciati.
Ero in buona compagnia: in anni diversi furono espulsi tra gli altri Emanuele Severino e Franco Cordero.
Lei quando fu messo fuori?
«Nel 1998, 12 anni dopo ci fu la sentenza finale della Corte di Strasburgo che condannò l’Italia che non aveva condannato la Cattolica per l’evidente sopruso sulla libertà di insegnamento. Ero già ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, ma i giudici amministrativi sostennero che il Concordato impediva loro di prendere posizione».
E tutte queste amarezze e delusioni l’hanno spinta verso l’Oriente?
«L’Oriente è frutto della curiosità insaziabile e del bisogno di una spiritualità non fondata sui dogmi cattolici. È stata importante una figura come Corrado Pensa. Mi ha aiutato in anni difficili a percorrere una strada di spiritualità libera da imposizioni dottrinali».
Una religione senza dogmi?
«Infatti il buddismo non è propriamente una religione».
Molti l’accostano.
«Sbagliando. Non conosce l’al di là; è un’analisi dell’esistenza, una via soteriologica di salvezza che non presuppone dei disegni divini. Tutt’al più il buddismo sta all’induismo come il cristianesimo all’ebraismo. E poi ci sono più buddismi: tantrico, zen, ecc. Molte sono le vie da percorrere».
Ne indichi qualcuna.
«Nei miei corsi di meditazione ne propongo tre: la via della consapevolezza, la via della scienza, la via delle emozioni».
In che rapporto stanno tra loro?
«Tendono tutte e tre a una mistica che definisco laica».
Laica?
«Nel senso dello stupirsi di ciò che osserviamo in questo mondo. La più pregnante definizione ci arriva dal Tractatus di Wittgenstein: “Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è”. Non c’è niente di più certo e di più laico del dire “il mondo è”».
Che “il mondo è” si può riferire alla sua osservabilità. Ma cosa c’entra la mistica?
«Di solito si pensa che la mistica debba essere un’esperienza basata su religione e soprannaturale, cioè su una fede riferita a un al di là rivelato. La mistica cui mi riferisco ci mette a contatto direttamente ed emozionalmente con esperienze umane che non esigono un credo religioso. Essa è laica perché la meraviglia che esprime nasce dal contatto con le cose del mondo».
So che lei da anni organizza e segue un gruppo di meditazione. Come è nata questa sua iniziativa?
«Sono un appassionato di paesaggi montani. Ho scalato e fatto roccia. La verticalità mi affascina. Tra queste esperienze è nata l’idea di un gruppo di meditazione. Abbiamo viaggiato in Nepal, Tibet, Cambogia, Birmania, Cina, India nei territori jainisti. Il gruppo, che esiste del 1979, è diventato nel tempo la mia seconda famiglia».
La parola paesaggio cosa le suscita?
«Ci sono due modi molto diversi di rapportarsi al paesaggio. Il primo è subirne l’impatto, che è poi l’urto della bellezza, dell’esaltazione da libertà. Un aprirsi e abbandonarsi a quella immagine. E poi, accanto a questa forma di rapimento c’è la “presa” ossia la possibilità attraverso la meditazione di coglierne i singoli aspetti, i dettagli attraverso cui si sviluppano tutte le possibili variazioni del paesaggio. Dobbiamo imparare a conoscere l’anima del paesaggio: chi si ferma alla sua superficie, rimane prigioniero del suo voyeurismo. I paesaggi nutrono la vita. E nutrire la vita, nel senso taoista, è già pietà e giustizia. Amare un paesaggio è quanto di più inutile ci possa essere al mondo. Ma l’inutile non è mai veramente inutile. Bisogna riuscire a conquistare l’inutile per conquistare l’anima del paesaggio».
L’inutilità è un concetto poco occidentale. Come immagina il suo Oriente?
«Una conquista senza calcolo. Ho precorso molti campi del sapere: dall’informatica giuridica, al gusto per la scienza, allo studio delle neuroscienze, alle teorie dell’interpretazione del diritto. Sono sempre stato mosso da un’autentica sete di conoscenza».
Ha una forte opinione di sé.
«Assolutamente sì, mista però a molta malinconia.
Sono un filosofo che si occupa di problemi e non di sistemi. La filosofia non serve a sapere cosa hanno pensato i filosofi, ma a conoscere come stanno le cose».
Per malinconia cosa intende?
È l’equivalente psicologico razionale della prima delle quattro verità buddiste: tutto è dukkha. Tutto è dolore, ma preferisco dire tutto è tristezza. Il buddismo è una via di salvezza dal dolore che permea tutte le cose. Il Buddha dice che la vita è tristezza se la si guarda non in modo illusorio. È singolare che oggi il più potente mezzo per sconfiggere la tristezza e l’angoscia non sono i farmaci, o non solo essi, ma la pubblicità! La pubblicità mostra persone che urlano di gioia per un nuovo telefonino o per un’auto completamente elettrica. Non è così che ci si salva dal dolore».
Non crede che l’attenzione che l’Occidente riserva al buddismo e alle sue numerose scuole sia anche il frutto di mode?
«La pubblicità è un frutto seducente che sembra dirci mangiami e scoprirai la parte migliore di te. Il buddismo nel suo esser moda non fa eccezione. Ma al tempo stesso il buddismo è una prova forse una sfida per scoprire ciò che l’occidente non conosce di sé. La maggior parte delle religioni si basano sulla fede, qualcosa di intenso ma cieco. Il buddismo sposta la sua attenzione sul vedere, sul conoscere e sul comprendere. Cosa c’è di più “laico” di queste disposizioni?».
Pensa davvero che la fede non svolga un ruolo?
«Non la fede che è un tratto acritico dell’umano, ma la fiducia. Fiducia nell’altro e nelle cose del mondo. Dalla fiducia nasce la devozione. Viviamo un tempo di scarsa devozione alle cose e ancor più di nessuna fiducia nell’altro. La fiducia è una pratica. L’Oriente, che io conosco e apprezzo, dice che la meditazione senza la pratica, senza una vita yogica, che la sostenga è poco efficace. È inesatto pensare che l’Occidente si riconosca nella scienza e l’Oriente nella meditazione. Sa molto di chiusura e di esclusione. Ho passato la mia seconda vita a gettare un ponte tra queste due realtà».