Robinson, 30 aprile 2022
Vivere di follower. Sul primo romanzo di Irene Graziosi
Una signora in tarda età, che pur smaniosa se non addirittura invidiosa, mai riuscì a capire come funziona la galassia che sin dall’asilo nido tutti frequentano selvaggiamente tranne lei e pochi altri zucconi, spera che a confortarla o addirittura a vendicarla sia questa femmina gentile che nel suo fulgore giovane e sapiente, in tempi di MeToo, definì ragionevolmente alcune mie sciocchezze «opinioni assurde di signore anziane» : e che pubblica adesso Il profilo dell’altra come testimonianza forse persino eccessiva, della delusione per quel paradiso che non sente più come tale, per le sue trappole anche avvilenti, compreso quel femminismo brontolone che non la convince più. Irene Graziosi, trentenne di origine romana, laureata in psicopatologia dello sviluppo, ha 50.800 follower su Instagram (ma non è una influencer, nel senso che non pubblicizza prodotti), ha fondato assieme a Sofia Viscardi, biondina ricciolina oggi ventitreenne, il progetto Venti, un magazine digitale dedicato ai ventenni, dove si parla di problemi di vita quotidiana, letteratura, musica e attualità con molti ospiti. Sofia ha già pubblicato due romanzi con Mondadori ed è vegana, Irene non è vegana, anzi, ed è al suo primo romanzo. Che Il profilo dell’altra non sia melenso e non veneri o diffami le star del ramo come l’angelica ricca sposa e mamma, figlia e sorella Chiara Ferragni, subito mette a proprio agio, cominciando da quel che si chiama ( brividi!) l’io narrante, finalmente una donna non solo antipatica, ma anche cattivissima, oggi, quando troppo spesso le femmine letterarie, dopo esperienze da Cosetta miserabile, trionfano per genio ma raramente sregolatezza.
«Mi chiamo Maia Gatti, ho ventisei anni, ho smesso di studiare, e l’unica cosa che faccio – malvolentieri – per avere un contatto con il mondo esterno è lavorare in un bar sotto casa come cameriera. Ci vado due volte la settimana». La protagonista del romanzo che, disgraziata, incappa in Maia, è la diciottenne Gloria Linares che «ha due milioni di follower, ha recitato in due film. È una creator importantissima. Ogni anno viene invitata dal Presidente della Repubblica. Ha scritto un libro di poesie che ha venduto duecentomila copie», ( una pugnalata alla folla dei poeti di professione che boccheggiano). Si incontrano perché casualmente Maia diventa l’image consultant di Gloria e già da subito il linguaggio dei personaggi è quello conformista dei social, quasi che Irene (la chiamo per nome perché ne capisco l’impegno) voglia in qualche modo proteggere l’italiano predigitale che ancora non ha trovato gli strumenti necessari del sapere tecnologico. Infatti Gloria è una brand ambassador, frequenta le call dei brand, deve difendersi dai competitor e non provocare un call out: il linguaggio del suo mestiere è un ibrido universale, un esperanto che unisce il mondo nel web, dissociandolo dalla realtà e dai suoi orrori. Maia invece esiste dentro e fuori, osserva glaciale quasi da altrove la vita vera e quella finta: in quella vera uomini impossibili da amare, famiglie inesistenti, sensi di colpa nascosti, rivalità femminili, lutti, in quella finta eventi squallidissimi, il premio letterario senza letterati, i party alcolici che finiscono a botte, i follower che dalla strada stridono il nome della star, la droga ovvio. Solitudine, paura, dolore. Denaro certo, che si liquefa all’istante e che Gloria si permette di rifiutare per un suo decoro nascosto, e perché la sua piccola celebrità non l’ha voluta, se l’è lasciata costruire attorno dalla nonna che sa benissimo come renderla commerciabile. Non basta che queste microinfluencer sappiano dire due parole sul brand che le ha assunte per pubblicizzare set di shampoo naturale da 200 euro o fiori per curare il cancro; bisogna, come le attrici del momento, evocare un passato di grande lacrimosità, perché «se sei sfortunato non puoi essere meschino…» e scegliere una buona causa, soprattutto femminista del femminismo che si lagna, ma anche fortemente inclusiva da non lasciar fuori nessuno, la grassa, la nera, i non binari, i diversamente abili, tutti tranne chi naturalmente palpò loro le natiche vent’anni prima (questo Graziosi non lo scrive, sono io la reproba). «Trascorro il tempo con Gloria alla ricerca di crepe nella sua vita smaltata» dice Maia ma non riesce a trovarne: per questo e fingendo amicizia, la detesta.
Irene Graziosi è cresciuta in una casa piena di libri, come tutti i suoi coetanei ha cercato la vita nei social. Oggi confessa di non essere più sicura delle sue certezze, sia sul mondo dei social che sulle regole che lo dominano. Si chiede per esempio che senso abbia proiettare su tutti gli uomini le proprie esperienze negative, i nostri incontri sfortunati, perché «forse siamo noi giovani donne ad amare gli stronzi, quindi siamo noi a dover cambiare, uscendo dalla passività». Quanto alle buone cause, pensa adesso che l’uso che ne fa la pubblicità le stia snaturando, ne fa frasi vuote, e questo a noi vecchi era già chiaro, non è esaltando un body per ciccione che convinci i tuoi follower a seguire il life style della Naomi Klein e del suo No Logo.
Ci sono molti mormorii attorno a Il profilo dell’altra, non so se eccessivi, certo ovvi. Ai critici cui viene inviato perché inneggino subito a un suo futuro premio Strega 2023 ( capolavoro!), superato lo shock della sua inaspettata e certo calcolata sincerità, il romanzo appare consolatorio, una parola buona, un incoraggiamento vendicativo a non soffrire per esserne fuori causa incompetenza, che tanto non serve, non ce la faremo mai. Ma possiamo serenamente farne a meno.