la Repubblica, 30 aprile 2022
Russia e Cina divise dal fiume Amur
Il fiume Amur è il decimo al mondo per lunghezza, il suo bacino idrografico è grande il doppio del Pakistan. Il suo corso, che non è imbrigliato da dighe perché richiederebbero la fiducia delle nazioni confinanti, segna per più di milleseicento chilometri il confine fra Russia e Cina: la frontiera più fortificata del mondo. In genere i grandi fiumi nutrono il cuore della nazione in cui scorrono: è difficile immaginare l’India senza il Gange o l’Egitto senza il Nilo. L’Amur invece, forse il fiume più lungo di cui la maggior parte di noi non ha mai sentito parlare, segna una divisione profonda. Non appartiene a nessuno in maniera esclusiva.
Anni fa, quando Russia e Cina si sono incontrate per determinare dove fossero le sorgenti più remote dell’Amur, hanno scoperto con disappunto che non si trovavano in nessuno dei due paesi bensì sulle remote montagne del nord-est della Mongolia. E qui, prima di intraprendere un viaggio di mesi lungo il corso del fiume, le ho raggiunte, in una zona proibita vicino al confine con la Siberia. Per dieci giorni, assieme a una guida e a due cavalieri mongoli, ho attraversato paludi sempre più profonde. Dopo una stagione di monsoni violenti, i nostri cavalli incespicavano e cadevano spesso; ne sono uscito con una caviglia rotta e due costole fratturate e ho proseguito lungo il fiume nel sud della Siberia.
A Tsugol, un paese sconosciuto lungo l’alto corso del fiume, mi sono trovato per caso nel bel mezzo della più grande esercitazione congiunta russo- cinese degli ultimi quarant’anni: nell’estate del 2018 qui, all’estremità opposta della Russia rispetto all’Ucraina, erano radunati più di 300 mila uomini. «Se scoprono che sei inglese», mi ha detto l’abate cordiale del monastero in cui ho passato la notte, «ti mettono in prigione». Sembrava divertito. Poi però, con l’aiuto di due viaggiatori russi, ha organizzato la mia fuga a bordo di una Lada Saloon arrugginita. Sulle prime ci siamo trovati a passare fra gli accampamenti gemelli dei due eserciti: da una parte la griglia ordinata delle tende russe e dall’altra l’ammasso di ricoveri di tela improvvisati dei cinesi. Nessuna sentinella ci ha fermati. I miei compagni russi – la nostra amicizia durava da meno di tre giorni – non mostravano alcun interesse per le operazioni che, fra pennacchi di fumo e boati di esplosioni, si svolgevano intorno a noi. Quei momenti di tensione hanno generato fra di noi una timida simpatia. Mi hanno protetto da sguardi ostili facendomi scudo coi loro corpi chini. E per fortuna ne siamo usciti indenni.
Dei siberiani a volte si dice che siano più forti e di pensiero più libero rispetto ai russi europei e questi due uomini avevano scelto di abbandonare la vita ordinaria. Uno era impegnato a gestire la sua attività di importazione su Internet, ben lontano da Mosca (e dalla moglie) del suo disincanto; l’altro, un pacifista, si era fatto monaco in un monastero della zona. E quando infine ho raggiunto un punto in cui Russia e Cina, separate dal fiume, distano meno di mezzo chilometro, le preoccupazioni suscitate dall’Europa o dalla Nato si sono affievolite di fronte allo spettro di una potenza al contempo più vicina e più tremenda.
Attraversare il fiume andando dalla sonnacchiosa città russa di Blagoveš?ensk alla città cinese di Heihe dà l’impressione di viaggiare verso il futuro. Trent’anni fa Heihe era poco più di un paesino. Ora le sagome dei suoi grattacieli di notte brillano di luci e la sua popolazione supera i 200 mila abitanti di Blagoveš?ensk.
Proseguo cauto lungo il fiume prendendo diversi autobus mezzi vuoti. La frontiera russa è lontana e protetta da una doppia cortina di filo spinato; in mezzo c’è un tratto di terra rastrellata che rivela le impronte di chiunque l’attraversi. La sponda cinese accanto a me è punteggiata solo da sporadiche torri di guardia. A un tratto però scopro la complessità dei rapporti fra le due potenze. L’accesso alla cittadina cinese di Anhui, situata in riva al fiume, è vietato agli stranieri. La raggiungo chiedendomi se sarò respinto o arrestato. È una tranquilla cittadina rurale. Un viale però conduce a un edificio di cemento sproporzionato rispetto a ciò che lo circonda: un imponente museo, di cui ho sentito parlare solo in termini di proibizione e segretezza. Entro, senza incontrare ostacoli, con un fremito di trasgressione. Mi rendo conto che non è un vero museo ma un “Centro di educazione patriottica”, ultimato nel 2002. Perché Anhui è il luogo in cui nel 1858 è stato siglato un fatidico trattato in virtù del quale la Russia ha strappato a una dinastia cinese indebolita più di cinquanta milioni di ettari di territorio a nord dell’Amur.
Mosca e Pechino saranno anche unite da un accordo ufficiale ma scopro con stupore che in questa specie di museo il dolore e il senso di sconfitta dei cinesi bruciano ancora. Al centro, in una sequenza di crescente indignazione, una serie di quadri a grandezza naturale illustra gli orrori inflitti dall’esercito russo: il brutale saccheggio di Anhui e il massacro di seimila uomini, donne e bambini cinesi, compiuto dai cosacchi nel 1900. La firma del trattato è ancora più inquietante. In una scena molto luminosa, la statua di cera del governatore della Siberia orientale, tutta spalline e autorità, incombe su quella del misero avversario, ribadendo un’appropriazione che avrebbe lasciato strascichi duraturi. Perché ancora oggi, nonostante la frontiera dell’Amur sia stata stabilita ufficialmente, i cinesi continuano a definire “iniquo” quel trattato. È come se, malgrado l’amicizia professata in pubblico fra le due nazioni, ai cinesi venisse insegnata una verità più dolorosa, impressa a fuoco nella psiche della nazione.
Si accalcano intorno a me senza sorridere né parlare. Probabilmente pensano che io sia russo (anche se qui i russi non possono entrare). Uscendo dal museo mi illudo di passare inosservato ma naturalmente non può essere così. Semplicemente non incrociano il mio sguardo.
(Traduzione di Alessandra Neve)