la Repubblica, 30 aprile 2022
La guerra impoverisce il mondo. Le stime del Fmi
Fragmentation. La parola chiave tra gli economisti è questa: il timore che alla globalizzazione segua la frammentazione, cioè un ritorno alle logiche di mercato nazionali o regionali, che secondo la direttrice della Wto Ngozi Okonjo-Iweala costerebbe al pianeta cinque punti di Pil. Lo spettro si aggirava anche prima della guerra, durante la faticosa uscita dal Covid, ma è stato ingigantito dalla destabilizzazione di Putin. L’aggressione dell’Ucraina è diventata il terreno di scontro fra autocrazie e democrazie anche sul piano economico, che forse ne deciderà l’esisto più delle armi.
La globalizzazione avrà mille difetti da correggere, ma secondo la Banca Mondiale ha ridotto le persone che vivono in povertà estrema da 1,9 miliardi nel 1990 a 650 milioni nel 2018. Questo dovrebbe spiegare perché sarebbe folle abbandonarla, invece di riformarla, ma sappiamo dalla storia che quando nazionalismo, ideologia ed egotismo si impossessano della politica, gli esseri umani diventano capaci di qualunque idiozia e crudeltà. Ciò è già evidente nei dati pubblicati dall’Fmi durante i vertici di primavera, secondo cui le previsioni per la crescita mondiale nel 2022 sono state abbassate dal 4,4% al 3,6%, in netto calo rispetto al 6,1% del 2021. Germania e Italia scenderanno dal 3,8% al 2,1 e 2,3%, ma la crescita di Roma è già negativa e lo scenario peggiore illustrato a Repubblica dal direttore del Fondo per l’Europa Alfred Kammer prevede uno shock globale con calo del Pil del 3% per il continente. Questo perché siamo esposti alla crisi energetica, importando il 40% del gas e il 27% del petrolio dalla Russia sanzionata.
Gli Usa sono più riparati perché sono i primi produttori mondiali di energia, e dovrebbero scendere dal 4 al 3,7%. Eppure il loro pil è già diminuito dell’1,4% nel primo trimestre dell’anno, perché risentono della debolezza dei partner commerciali, soffrono gli imbuti della supply chain, è hanno l’inflazione all’8,5%. Goldman Sachs stima che in America c’è il 15% di probabilità di recessione nei prossimi 12 mesi, e 35% nei prossimi 24. Biden scarica i guai sui “Putin’s Price Hikes”, ma i sondaggi avvertono che gli elettori lo puniranno alle elezioni di midterm. In Cina la crescita è destinata a scendere dal 5,5% al 4,4%, se sarà fortunata, perché la nuova esplosione del Covid rischia di costarle più della scelleratezza di Putin. L’economia russaperderà l’8,5% e quella ucraina il 35%.
L’emergenza però riguarda tutti. Secondo l’Fmi l’inflazione provocata dal rincaro di energia e commodities salirà al 5,7% nelle economie avanzate, e 8,7% in quelle emergenti. La Banca Mondiale prevede il peggior shock dell’ultimo mezzo secolo nei prezzi di beni come gli alimentari, perché prima della guerra Ucraina e Russia esportavano il 28,9% del grano mondiale, il cui costo è già salito del 42,7% perché ora manca. Ciò affama Africa e Medio Oriente, con tutti i rischi per la stabilità, come ricordiamo dalle “primavere arabe”.
La crisi economica però non è un sottoprodotto della guerra, ma una delle armi con cui si combatte. Scatenandola Putin ha sempre contato sul ricatto energetico, già applicato a Polonia e Bulgaria, e sulla certezza che le deboli democrazie non riusciranno a sopportare a lungo i sacrifici necessari a vincere. Biden però ha riunificato gli alleati, e finora la maggioranza degli americani resta convinta che la sfida mortale lanciata dal Cremlino alla libertà, con la Cina, valga il suo prezzo. Come quando Roosevelt proclamò l’America «arsenale della democrazia», mettendo in moto anche uno sforzo economico che gli storici riconoscono come il vero motore che consentì agli Usa di mettersi alle spalle la Grande Depressione.