ItaliaOggi, 30 aprile 2022
Orsi & Tori
«L’Europa è un’immensa città diffusa. Il contrario di città non è campagna, è deserto; e in Europa trovi tutto; metropoli e borghi, boschi e fiumi, campi e mari, tranne il deserto. In tutto il continente non esiste un posto da cui non si possa raggiungere in un’ora un ospedale, una sala di concerti, una biblioteca. Ogni 150 metri c’è la fermata di un tram, ogni 300 di una metropolitana; ogni 10 chilometri c’è una stazione, ogni 150 chilometri una stazione dell’alta velocità…»
Renzo Piano
Corriere della Sera 27/04/22
…E in Ucraina c’è il deserto delle macerie. Renzo non lo ha detto, ma lo pensava. L’Europa e l’Ucraina sono la differenza fra 77 anni di pace nel continente più civile della terra e 65 giorni di guerra in un paese sterminato che faceva parte dell’Unione sovietica. Come si fa a scongiurare che anche l’Europa diventi deserto? Nessuno ha la formula sicura, ma tutti possono valutare che la strada intrapresa dall’aggressore, dall’aggredito e dal mondo occidentale guidato dall’America è quella dell’escalation. E, per bene, che vada larga parte del mondo si troverà in una crisi economica che vorrà dire disoccupazione, crescita della povertà e anche fame.
Il presidente Mario Draghi deve pensare bene a tutto ciò, mentre programma di andare a trovare il presidente degli aggrediti e il presidente del paese che ha salvato l’Europa distrutta dalla guerra voluta da Adolf Hitler, ma che poi si è fatto prendere la mano a voler fare il guardiano del mondo in tutto il mondo. E Draghi, in primo luogo deve pensare al bene del paese di cui è capo del governo. Proprio per questo ci sono una serie di tempi che vanno affrontati in Italia e in parte in Europa, a prescindere da quanto durerà la guerra, ma affrontati subito proprio perché la guerra potrà durare anche a lungo. Si potrebbe dire (anche se è una bestemmia) che paradossalmente la guerra ci aiuta a capire ancora meglio le debolezze del paese e del continente.
Primo problema, proprio per la competenza di Draghi in materia: la necessità di ribaltare la politica attuata in Italia nel settore bancario, perché il buon funzionamento delle banche e dei suoi derivati sarà essenziale per cercare di evitare che centinaia di migliaia di aziende falliscano e con esse milioni di occupati perdano il lavoro.
Guido Carli diceva che le banche hanno certo l’obiettivo del profitto, anche come indicatore dell’efficienza, ma non sono aziende come le altre. Presuppongono, hanno bisogno per funzionare bene, che accanto al puro profitto ci sia, da parte di chi le guida e di chi vi lavora, di esercitare una fondamentale funzione sociale più di ogni altra forma di azienda. Proprio per questo, la consapevolezza di questa funzione ha trovato nella storia la forma giuridica della cooperativa, declinata nelle due sigle, Bcc (Banca di credito cooperativo) e Bp (Banca popolare), ugualmente nella forma cooperativa, dove si vota, nel rispetto delle funzioni sociali, per testa e non per possesso di quote, cioè non di capitale posseduto quale espressione della forza economica dei vari soggetti. Una logica che nella storia ha fatto molto bene all’economia in generale, creando un movimento e uno spirito di socialità e di reciproco aiuto, con la possibile partecipazione all’intrapresa anche a chi era meno dotato di capitali.
Inopinatamente, durante la fase dei nefasti test ordinati dall’Eba, l’autorità bancaria europea, fu deciso che le banche cooperative popolari con attivi superiori agli 8 miliardi di euro dovessero per forza trasformarsi in spa ordinarie, cancellando quello spirito cooperativo e sociale che è stato alla base della nascita e della crescita delle economie locali. Sono state così cancellate come banche popolari quelle che nel tempo si erano più estese e sviluppate, a cominciare dalla Banca popolare di Verona, della Banca popolare di Milano, tutte quotate in borsa, con la conseguenza che molte hanno finito per fondersi fra loro entrando in una logica puramente capitalistica. Ma uguale sorte è capitata e sta capitando a chi, pur non essendo quotato in borsa, raggiungendo quel mitico attivo di 8 miliardi (perché no dieci o cinque?) si trova nella necessità di cambiare natura, visione e di conseguenza anche organizzazione.
A resistere di più di tutti, fino a consumare tutti i gradi della giustizia di opposizione, è stata, come noto, la Banca popolare di Sondrio che nella nuova veste di pura spa si trova a celebrare questo sabato 30 la prima assemblea dove ci sono due liste di consiglieri contrapposti: quella designata dai soci storici cooperativi e quella dei fondi di investimento, con il rischio che si azzeri qualsiasi spirito cooperativo e solidale, legato unicamente al profitto.
Ma stessa sorte può toccare anche a chi non è quotato in borsa, come la Banca agricola popolare di Ragusa, che è essa stessa l’emblema della straordinaria e positiva diversità di tutta la zona di riferimento, dove il benessere è diffuso, dove la pulizia e l’ordine sono tangibilmente constatabili a chiunque percorra le strade di Ragusa e del suo territorio.
La Banca agricola popolare di Ragusa avrebbe una sola alternativa per evitare il mutamento di natura: rinunciare e arrestare lo sviluppo.
È stato già descritto su queste colonne come una diversa linea di pensiero, quello della Banca di Francia, abbia potuto conservare la rete delle Bcc, dandogli addirittura l’indirizzo di generare tutte insieme il Crédit Agricole, quotato in borsa e secondo gruppo francese per dimensione.
Dio sa quanto l’Italia sia una economia di territorio, con un numero enorme di pmi, le quali hanno trovato per il loro sviluppo l’aiuto cooperativo delle banche popolari e delle Bcc.
Non è il caso, Signor Presidente Draghi, proprio mentre si sta rientrando in una gravissima recessione a causa della guerra, di rivedere quella legge infausta che sulla spinta dell’Eba sta cancellando lo spirito cooperativo e sociale delle banche popolari, e invece di mettere la tagliola di 8 miliardi di attivi elaborare una struttura funzionale al tessuto del paese e compatibile con un moderno sistema di grandi gruppi bancari con espansione anche internazionale?
Secondo problema: il fatto che sui conti bancari dei cittadini e delle imprese a fine anno c’erano ben 1.859 miliardi euro; più del valore della ricchezza prodotta in un anno dal paese, cioè il pil italiano. Sarebbe come se ogni azienda tenesse liquida la stessa cifra corrispondente al suo fatturato annuo. Non ci vuole molto a comprendere che quell’azienda rinuncerebbe allo sviluppo semplicemente per essere liquida, in una logica di assoluta prudenza.
Proprio mentre la recessione torna fra noi, sarebbe delittuoso non porsi il problema (e in primo luogo dovrebbe farlo il governo Draghi) su come incentivare l’impiego di quel denaro giacente, anche se e vero che nella logica del rapporto fiduciario con il depositante e con il sistema in generale le banche usano quei depositi per fare prestiti.
Ma ai depositi bancari c’è da aggiungere il risparmio degli italiani che è affidato ai gestori (oltre 2.500 miliardi secondo i dati di Assogestioni) che per il 75% viene investito all’estero.
Anche senza bisogno di laurea ad Harvard o all’Mit, ciascun italiano capisce che il paese nel suo complesso non sta investendo sul suo futuro.
A tutto questo va aggiunto il dato più che allarmante che il debito pubblico italiano è il più alto in Europa in relazione al pil e che attualmente ha raggiunto, secondo il quadro programmatico del governo, il 149,4% del pil, stimato a 1882,7 miliardi, con una crescita del 3,1% che, continuando la guerra, è pura illusione.
Quindi i problemi macro del paese sono due:
1) Una liquidità enorme sui conti correnti;
2) un debito pubblico enorme e inevitabilmente crescente in percentuale rispetto al pil, visto che quasi sicuramente la crescita del 3,1% ipotizzata per il 2022 sarà difficilmente raggiunta.
Una equazione apparentemente senza soluzione ma che invece, come sanno i miei due o tre lettori, una soluzione ce l’ha: fare in modo che almeno 400 miliardi di quella liquidità vengano investiti, attraverso fondi immobiliari che Banca Intesa Sanpaolo ha proposto da tempo che siano realizzati su base locale, per comprare gli immobili che lo stato ha inopinatamente trasferito agli enti locali, creando loro in molti casi più svantaggi che vantaggi per i forti oneri di gestione di quegli immobili.
Con questa manovra, scomparirebbe il debito degli enti locali che concorre a formare appunto per circa 400 miliardi il debito pubblico nazionale quantificato nel quadro programmatico al 149,4%, ma con una crescita ottimistica del pil del 3,1%. Quindi:
1) il debito pubblico nazionale si ridurrebbe di circa 400 miliardi, facendo crescere la fiducia nel paese Italia;
2) la liquidità ferma sui conti bancari si ridurrebbe di 400 miliardi che sarebbero impiegati per valorizzare con ristrutturazioni e migliorie gli immobili, aumentandone il potenziale rendimento e soprattutto innescando una sana crescita dei lavori edili, che, come è noto, muovono almeno altri cinque o sei settori industriali.
Fantastico, no? Certo, se l’Italia fosse un paese efficiente. Il presidente Draghi sta usando i vincoli del Pnrr per cercare di far crescere l’efficienza, soprattutto della burocrazia, ma per realizzare un tale programma ci vuole appunto una banca capofila come appunto Intesa Sanpaolo e il suo ceo Carlo Messina; amministratori locali che non facciano melina e che comprendano che è molto meglio tagliare il loro debito piuttosto che avere immobili spesso gestiti in maniera clientelare o non gestiti per niente; un colpo d’ala del governo che voglia non solo far diventare attiva una parte dell’eccessiva liquidità sui conti bancari ma anche dare un taglio netto al debito, senza che i beni escano dalla sfera di proprietà dell’Italia.
Facile? Assolutamente no, ma quali altre iniziative ci sono per centrare i due obbiettivi di tagliare il debito e di impiegare l’eccessiva liquidità sui conti bancari? Resta poi, il problema dei problemi di un mercato finanziario nazionale (Euronext o non Euronext) che non è in grado di assorbire e portare a investimenti produttivi nell’economia del paese tutta la liquidità che i gestori sono costretti a investire all’estero per mancanza di materiale italiano, determinando così che i risparmi degli italiani finanzino le economie estere.
Ciò fa capire che, anche se non ci fossero i fondi del Pnrr, l’Italia potrebbe migliorare il suo sviluppo per i capitali italiani che sono in eccesso. È il sistema che non funziona e che per la voracità di liquidità dello Stato, al massimo fa comprare Btp, creando quel sistema del cane che si morde la coda, perché lo stato in questo modo continuerà a indebitarsi, mentre se determinasse lo sviluppo dell’economia con il risparmio italiano, potrebbe migliorare le sue entrate e quindi abbassare il suo debito.
Fusse che fusse, come diceva Nino Manfredi, che i disastri della guerra almeno smuovano qualcosa e che Draghi, di ritorno da Kiev e Washington, voglia usare il residuo periodo di vita attiva del suo governo per fare una piccola grande rivoluzione nel sistema economico finanziario del paese?
P.S.
Indipendenza. Che bella parola.
Sulle labbra dell’Ing. e costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, ma anche il palazzinaro più grande e ricco di Roma secondo L’Espresso versione lenzuolo, aveva un sapore strano, molto particolare.
L’Ing. più ricco di Roma e non solo, l’ha usata in piena battaglia per le Generali nella lunga intervista al quotidiano della Confindustria, per liberare (diceva lui) Generali dal giogo di Mediobanca. Il sapore era ed è strano perché l’uso della parola indipendenza è anche in relazione, se non principalmente, all’informazione, come sancisce la Costituzione e come ha ricordato definendola la tredicesima dignità il Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso alle Camere per il secondo mandato: «I cittadini hanno diritto a informazione libera e indipendente».
Caltagirone è anche editore di una catena di quotidiani con in testa il Messaggero, il giornale di Roma. Bene, provate a interrogare in primo luogo sul tema dell’indipendenza chi ha lavorato in via del Tritone. Indipendenti in tutto meno che nella possibilità di scegliere di parlare bene o male di soggetti e società, non in base ai fatti ma al fatto di qual è la cerchia a cui fanno riferimento. Ma c’è di più, perché ce ne sono di quelli di cui è bene non parlare. Se ne accorse l’ex-sindaco Francesco Rutelli quando autorizzò la distribuzione nella Metropolitana di Roma del quotidiano gratuito Metro...
È questo il modo affermare l’indipendenza a cui faceva riferimento l’Ing. Caltagirone nella sua intervista aggressiva verso Mediobanca per conquistare le Generali?
Ma su tutto ciò si potrebbe anche soprassedere, ponendosi invece la domanda, ormai per fortuna retorica nel caso specifico, se in un paese democratico che presuppone la distribuzione del potere, chi è ricco e potente e possiede giornali e media vari (Caltagirone ha cinque quotidiani, uno anche a Venezia, simbolo delle Generali) avrebbe avuto e abbia in futuro il diritto di conquistare, mantenendo la proprietà dei giornali e media, il più importante gruppo assicurativo e finanziario nazionale o altre strutture fondamentali del sistema economico.
Ma il paradosso è anche un altro: a rendere editore l’Ing. Caltagirone fu Mediobanca regnante Enrico Cuccia, che aveva cominciato proprio come giornalista e proprio al Messaggero. Nonostante l’onestà e l’abilità finanziaria, che tuttavia non gli ha impedito di succhiare alla mammella Generali, anche Cuccia evidentemente non aveva ben chiara la tredicesima dignità indicata dal presidente Mattarella.