il Giornale, 30 aprile 2022
Tutti gli articoli di Manganelli sull’arte
Potremmo raccontare i libri di Giorgio Manganelli dalle copertine. La prima edizione di Lunario dell’orfano sannita (Einaudi, 1973) riproduce un quadro bucolico di Ludovic Kochol, Al pascolo; quella di Amore (Rizzoli, 1981) il dettaglio di mani di donna intrecciate tra i capelli, a rintracciare nodi, doni, fermagli e l’opera di riferimento è La toilette d’Esther, l’ha dipinta nel 1841 Théodore Chassériau; Angosce di stile (Rizzoli, 1981) è illustrato con un vaso dipinto da Louis Tessier; Improvvisi per macchina da scrivere (Leonardo, 1989) riproduce il Ritratto dell’incisore Carl Edvard Sonne del pittore danese Ditlev Conrad Blunck. Spesso si tratta di artisti semisconosciuti, dalle biografie sommerse, forse fasulle: sembrano inventati lì per lì, per evenienza decorativa, dal «Manga». Che la copertina non sia mero orpello lo si deduce dalla quarta di Nuovo commento (Einaudi, 1969), in cui Manganelli s’impegna a descrivere la mappa di Takahashi Shohachiro che ricopre il libro, specie di «notturna catastrofe» (sul punto: Giorgio Manganelli, Quarte di nobiltà, Aragno, 2019). Che Manganelli descriva il libro «come supporto per copertina», infimo oggetto dalla «vocazione indubitabilmente didascalica... servile, manualistica, sommariamente informativa», lo eleva, ancora, a supremo dinamitardo della letteratura italiana, senza allievi. L’amore per i giapponesi traspare anche in Centuria (Rizzoli, 1979): la copertina ritaglia un dettaglio da Hiroshige, ma Manganelli, leviatano del verbo, preferiva Hokusai. «In qualche modo, tutte le figurazioni di Hokusai sembrano nascere da un incontro occulto tra la solitudine e la follia; o tra la meditazione e il sogno», scrive in un articolo pubblicato sul Messaggero il 25 gennaio 1990, dicendolo «indimenticabile, definitivo, straziante e indifferente». Nella prima edizione di Hilarotragoedia (Feltrinelli, 1964), piuttosto, spicca una fotografia di Manganelli medesimo, con sciarpa, cappello, sguardo spiritato, pare un esorcista, un «portaiella», diceva lui: l’autore, «umile pedagogo», è esso stesso opera d’arte, degno di sterminate interpretazioni, fino al patibolo dell’anatema.
Lo scrittore, purché tale, ha sempre bisogno di un gemello nell’arte figurativa: a Giovanni Testori dobbiamo la riscoperta di Gaudenzio Ferrari e di Tanzio da Varallo, ad Emilio Villa gli Attributi dell’arte odierna; la poetica di Pier Paolo Pasolini è stata influenzata dagli studi di Roberto Longhi, una fratellanza di stile lega Francesco Biamonti a Ennio Morlotti – in questa scia, vagando a casaccio, bisogna dire del rapporto tra René Char e Nicolas De Staël, di quello tra Rainer Maria Rilke e Cézanne, mentre un autentico sodalizio ha legato Giovanni Comisso a Filippo De Pisis. Manganelli è al di là di questa dinamica: per lui, puro ispirato, istrione dall’improvviso aforistico – indimenticabile e crudele il modo in cui censisce la poesia di Walt Whitman: «oscilla tra il film dei marines e la verbalità mitica di un Blake» -, l’arte è abracadabra, pretesto narrativo, indagine bizantina a sondare il sesso degli angeli. Per Manganelli, gnostico claustrofobico, l’opera d’arte è simbolo, la caviglia di un dio del sottosuolo, la cui descrizione richiede audacia da chiromante.
Secondo Andrea Cortellessa, «il Manganelli scrittore d’arte», quello che si rivela in Le mort comme lumière. Écrits sur les arts du visible che escono ora in Francia, per i Cahiers de l’Hôtel de Galliffet (pagg. 266, euro 18) ed entro fine anno per Adelphi, testimonia, «più di altri accessi», la «sua personalità per definizione sfuggente», è sancito da «intuizioni rapinose che in poche righe condensano intere ponderose bibliografie». Alcuni articoli – quelli pubblicati su FMR, la rivista di Franco Maria Ricci che «tra i molti pregi... il maggiore fu quello di avere inventato la figura di Giorgio Manganelli corrispondente d’arte... ubiquo, frettoloso e competentissimo», Pietro Citati dixit – li abbiamo letti in Salons (Adelphi, 2000), altri sono dispersi qua e là, tutti – raccolti per la prima volta in modo organico, quasi da romanzo per figure, da mefistofelica Wunderkammer – rasentano il superbo, stanno tra Pulcinella, «imparentato con tutto ciò che nasce e muore» – vedi: Pulcinella, mille e nessuno, 19 dicembre 1984, Corriere della Sera – e Plotino.
Manganelli malsopportava i «musei istituzionali» – dichiarazione rotonda, da arcangelico boia: «Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode. Raccoglie quelle cose ambigue e un poco sinistre che sono i capolavori; colleziona opere d’arte, in nome della bellezza; infine, pretende di essere istruttivo» -, alle «mostre» preferiva i libri, il profumo d’anestetico dei cataloghi d’arte. Soltanto Manganelli poteva convincerci che van Gogh non esiste (così il titolo del pezzo uscito sul Messaggero il 6 aprile 1988) e che, soprattutto, «è il pittore delle patate», «tuberi ctonii, frutti che si nutrono di lunghe tenebre, cibi apparecchiati, allevati nel luogo della sepoltura» (così in Profondo nero, 14 febbraio 1988, Il Messaggero). Solo a Manganelli è lecito dissigillare il significato del volto di Teresa d’Avila scolpito da Bernini per Santa Maria della Vittoria a Roma: «Quel volto è la perdita dell’io, del nome, del dialogo; non si difende, ed è imprendibile; non resiste, e la sua forza è incalcolabile; si astiene, ed è ossessionante; come acqua e luce è privo di forma, ed occupa ogni luogo, ogni occhio che osi guardarlo; la sua lontananza è insondabile, e tuttavia abita, tormentosa e distratta, nel profondo di noi».
Più che il pallore dell’arte serafica, serotina, Manganelli predilige «la linea della fantasia grottesca, irregolare, del bizzarro e del mostruoso», per usare le parole con cui celebra il Morgante maggiore di Luigi Pulci, «raccontato e spiegato» a favore di un programma radiofonico «in onda nei primi anni ’70, per la regia di Vittorio Sermonti» (pubblicato come Un’allucinazione fiamminga da Socrates nel 2006, torna grazie ad Aragno e alla cura di Lietta Manganelli in Quel badalone di Morgante, pagg. 304, euro 18). Al Manga, mistico del carnevale, dei mondi capovolti, dei tempi sospesi, piacciono i «libri un po’ bastardi... senza discendenti riconosciuti... ambigui e insieme di buon umore», che «hanno del canagliesco» (come i suoi!); da qui, la predilezione per il Pulci e per i pittori estremisti, il Pitocchetto, ad esempio, «scandaloso... squisitamente ingannevole, estremamente disorientante... nella sua studiata malagrazia» (Il re dei pitocchi, 9 luglio 1987, Il Messaggero); oppure Emil Nolde, la cui arte «ha qualcosa di stregonesco... di nobilmente impuro, di gloriosamente infernale» (I colori delle tenebre, 7 aprile 1989, Il Messaggero).
Tuttavia, autentico fool capace di alternare misericordia a miscredenza, ode a pernacchia, di diluire il pianto in un acquazzone di spine, è quando Manganelli scrive degli etruschi, con enfasi da Mille e una notte – «Gli etruschi sono silenziosamente scomparsi, senza ira, senza clamori; avevano avuto una storia nobile e doviziosa; avevano insegnato l’arte di profetare consultando il volo degli uccelli; avevano profetato esattamente la propria fine» -, che ci pare di poter scollinare il millennio a dorso di uno specchio, di poter vivere per distrazione: la felicità, forse, sta nell’esultanza di un sarcofago di marmo, nell’assalto di un riflesso, appena inesatto rispetto all’originale.