il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2022
Martone mette in scena Le Operette morali di Leopardi
Già da bambino, Giacomo è un “prepotente”: sveglio e precoce, abbozza canovacci teatrali da recitare insieme ai fratellini, Paolina e Carlo; peccato, però, che voglia sempre gigioneggiare e primeggiare, avocando a sé il ruolo di protagonista. Dagli spettacolini in salotto alle Operette morali, il salto non è così rocambolesco o azzardato, almeno per Mario Martone, fiero alfiere della “teatralità di Giacomo Leopardi” (1798-1837).
Regista tra i più eclettici d’Italia – in grado di muoversi con scioltezza, grazia e pensosità tra teatro di prosa, opera lirica e cinema –, Martone è anche il brillante autore de Le Operette morali in scena, scritto a quattro mani con Ippolita Di Majo, impreziosito dai bozzetti di Mimmo Paladino e fresco di stampa con Mimesis edizioni. Dopo oltre dieci anni dalla messinscena dei dialoghi leopardiani allo Stabile di Torino (Premio Ubu) e a otto dal film Il giovane favoloso, l’artista consegna alla carta un tesoretto di riflessioni sul poeta recanatese, filtrate dal suo “orecchio di regista” e sfrondate dal peso “accademico”.
Il saggio non è soltanto un documento per gli addetti ai lavori, ma una spigolatura originale su “Leopardi mondo e pensiero”, ancora troppo spesso mummificato con la gobba, la siepe, la luna e poco altro. Eppure, chiosa Martone, “la sua stessa scrittura è uno strumento vivo, mai imbalsamato nel tempo… La sua immaginazione a me sembra più dinamica che contemplativa”, innervata da una squisita vocazione “cinematografica… Lo Zibaldone comincia proprio come una sceneggiatura”.
Nel denunciare “la mancanza di teatro nazionale e quella della letteratura veramente nazionale e moderna” – benché siano gli anni in cui Alessandro Manzoni sforna I promessi sposi –, Giacomo elabora una precisa poetica: “Ne’ miei dialoghi, io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia cioè i vizi dei grandi, i principî fondamentali della calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale, le disgrazie, le rivoluzioni, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione dell’eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento, benché oggi assai forti. Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando”.
Martone vede in Leopardi un “drammaturgo segreto”, figlioccio di Molière e Shakespeare, o bisnonno di Beckett e Koltès (per l’umorismo nero del primo e per il periodare complesso, architettonico del secondo): “Le Operette morali sono una cosmogonia in cui appaiono umani, folletti, pianeti, poeti, viaggiatori, anime, dei, demòni, scienziati, filosofi, cannibali, statue parlanti, venditori ambulanti… Ebbene in mezzo a loro si manifesta anche Leopardi (che) fa di se stesso una maschera, anzi un personaggio: e che personaggio!”. Detto fatto, il regista l’ha scritturato, per imbastire “non tanto uno spettacolo o un film su di lui, quanto con lui”.
Altro che gobba, meglio il gobbo di scena, il suggeritore di mondi numinosi e profetici: quale miglior attore del Poeta, dunque, per interpretare splendori e miserie del pianeta e dell’animo umano?