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 2022  aprile 30 Sabato calendario

Quanto guadagnano gli attori in Italia

«Dobbiamo far sì che sia versata agli interpreti una percentuale congrua dei ricavi». «Gli attori dovrebbero avere un compenso adeguato e proporzionato agli incassi». Quelle pronunciate nei giorni scorsi da Neri Marcoré ed Elio Germano non sono frasi dal sen fuggite, ma lo sparo di partenza di una nuova fase nei rapporti tra attori, produzioni e istituzioni in Italia. I motivi dello scontento non sono di semplice comprensione per lo spettatore comune, abituato a considerare gli interpreti una casta di eletti, ricchi e famosi.
A differenza di Hollywood, in Italia i compensi delle star del cinema sono segreti, tutto si muove sul filo del «si dice». Secondo la rivista americana People With Money, nell’ultimo anno Terence Hill e Stefano Accorsi avrebbero fatturato 58 milioni di euro a testa, mentre per Money.it Checco Zalone per il solo Quo vado? avrebbe guadagnato, da attore e sceneggiatore, 6 milioni. Qualche anno fa il sito di lifestyle snapitaly.it aveva stimato il patrimonio di Roberto Benigni intorno a 245 milioni di dollari, 75 quello di Sofia Loren, Monica Bellucci sui 45. Sempre secondo il sito, i grandi volti del nostro cinema inciderebbero mediamente sul budget del film di circa il 15%, con compensi dai 200 mila euro di Luca Zingaretti per un episodio di Montalbano ai 300 mila a pellicola per star come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea.
Ma i top player sono pochi e in realtà il settore è in grave sofferenza. Ben oltre il famigerato «zero virgola», la risicatissima quota di diritti connessi spettanti agli attori che ha fatto esplodere la protesta.
La madre di tutti i problemi è che in Italia, dal punto di vista fiscale, agli interpreti non viene riconosciuta una specificità propria, rientrando nella categoria generica dei lavoratori della comunicazione. Un calderone indistinto, dai calciatori ai portalettere. A differenza di questi ultimi, gli attori dell’audiovisivo non hanno mai avuto un contratto collettivo di lavoro. Per questo un paio d’anni fa 1.400 interpreti di cinema, televisione e palcoscenico hanno creato Unita, l’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo. Uno dei soci fondatori è Francesco Bolo Rossini (a breve a Cannes con la serie di Bellocchio Esterno Notte): «È dai primi anni Duemila – dice – che l’Europa ci chiede un contratto che stabilisca minimi sindacali, garanzie e diritti. Siamo l’unico Paese occidentale a non averlo. In più il Fondo di Previdenza per i Lavoratori dello Spettacolo è la sola cassa Inps in attivo: ha un tesoretto di oltre 5 miliardi di euro e produce un utile di esercizio annuo di circa 300 milioni. Visto che il nostro è un settore con pochissimo welfare, l’avanzo consentirebbe di aiutare gli attori nei momenti di inattività. Questo ora non è possibile, perché con il sistema dei vasi comunicanti della previdenza italiana quelle somme vanno a coprire i disavanzi delle altre casse».
Poi c’è la proverbiale discontinuità dell’attore: in Italia vengono pagate solo le pose (le giornate effettive di riprese sul set), il resto va per la gloria. Non aiuta la prassi consolidata adottata dalla maggior parte delle produzioni di imporre all’attore la retribuzione a partita Iva anziché l’assunzione a tempo determinato. «Non esiste mestiere più subordinato di questo», spiega ancora Bolo Rossini. «L’attore deve sottostare a un rigido sistema di regole fissato dal datore di lavoro: presentarsi in un certo luogo in un dato momento, lavorare per un determinato numero di ore, per mesi non può neanche tagliarsi barba e capelli. È a tutti gli effetti un lavoratore dipendente. L’assunzione non è impossibile da ottenere, ma devi avere un potere contrattuale particolarmente forte. Esistono produzioni virtuose sensibili ai diritti, ma in molti casi se non fatturi viene scelto qualcun altro».
Quanti sono gli attori in Italia? Difficile dirlo. Secondo l’Inps 83.390, con una media annua di 15 giornate lavorate e 2.818 euro guadagnati. Ma la cifra include anche i numerosissimi non professionisti, magari in virtù di una sola comparsata. A fronte di un 3-4% di star e una percentuale analoga di attori cosiddetti «sopra la linea», c’è un 90% che galleggia o addirittura non riesce a camparci. Per contarsi, un collettivo di attori ha dato vita al Raai, Registro Attrici Attori Italiani, il censimento è in corso. «Un albo professionale non lo si può creare, perché la Costituzione Italiana prevede il libero accesso all’arte», spiega la portavoce Karin Proia, nel cast di Boris. «Ma è fondamentale almeno delimitare il perimetro del professionismo. Vanno definite anche le tutele, al momento praticamente inesistenti o irraggiungibili ai più. Un esempio tra i tanti: per accedere alla maternità, attrici e danzatrici devono lavorare all’ottavo mese. Posto che tu sia in grado di farlo, ma chi ti prende con il pancione? Certo non la produzione di un film, visto che la pancia cresce e creerebbe problemi di continuità nelle scene. E ve la immaginate una ballerina sulle punte a un mese dal parto?».