La Stampa, 30 aprile 2022
Il pantheon di Giorgia Meloni
Chissà perché cascano sempre tutti sul pantheon. Stavolta Giorgia Meloni, la cui conferenza programmatica, la tre giorni milanese aperta ieri, va presa né trionfalmente né scansata con disprezzo (succederà l’uno e l’altro). Già tre giorni a parlare di politica, con buoni ospiti non strettamente di casa, da Giulio Tremonti a Luca Ricolfi, da Marcello Pera a Carlo Nordio, anziché su Twitter a mandare bacini e bacetti perugina, come fa il semialleato felpato, sono un evento ai confini dell’entusiasmante, visto l’andazzo. Poi vabbè, il discorso d’apertura di Meloni è stato quello che è stato, un passetto di qui e uno di là, per dimostrarsi affidabile all’establishment politico e finanziario, ché a fargli la guerra non si governerà mai, e per confermarsi succulenta all’elettorato, e vorrei ben vedere. Ci sarà tempo per verificare se Meloni stia transitando dal sovranismo orbanista al conservatorismo, ma intanto hanno squadernato il pantheon, il classico srotolare di poster per la cameretta, e per la presentabilità sociale: Hannah Arendt e Roger Scruton, Fëdor Dostoevskij e J.R.R. Tolkien, Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini (vien sempre buono, pure a destra). E il solito Giuseppe Prezzolini, che nessun partito conservatore si lascia scappare mai. Nemmeno questa destra patriottica, con la bocca piena d’Italia, evidentemente ignara del discorso funebre pronunciato da Prezzolini oltre sessant’anni fa: «Il suo tentativo di formare uno stato nazionale è fallito. Sarà forse una provincia dell’impero europeo». Il titolo del libro era «L’Italia finisce, ecco quel che resta». Appunto, ecco quel che resta.