Time, 30 aprile 2022
Quando i russi arrivarono a pochi passi da Zelensky
Il momento più difficile è la notte, quando è steso sulla brandina, con il lamento delle sirene nelle orecchie e il telefono che vibra ancora accanto a lui. Nel buio, il bagliore dello schermo trasforma il suo viso in una maschera spettrale, mentre lo sguardo scorre sui messaggi che non ha avuto modo di leggere durante il giorno. Alcuni sono di sua moglie e dei figli, molti provengono dai suoi consiglieri, qualcuno dalle truppe, che si ritrovano assediate dal nemico nei loro bunker e gli chiedono ininterrottamente di inviare altre munizioni e armamenti per spezzare l’accerchiamento dei russi.
Dentro il suo bunker, il presidente ha preso l’abitudine di fissare la sua agenda giornaliera anche al termine della giornata. Resta sveglio, a chiedersi se ha dimenticato qualche particolare, o qualcuno. «È inutile», mi dice Volodymyr Zelensky nel complesso presidenziale di Kiev, davanti all’ufficio dove talvolta si ferma a dormire. «È sempre la stessa agenda. Vedo che per oggi ho finito. Ma la guardo molte volte e ho l’impressione che ci sia qualcosa che non va». Non è l’ansia che gli impedisce di chiudere gli occhi. «È la mia coscienza che mi tormenta».
Lo stesso pensiero continua ad assillarlo: «Mi sono addormentato, e adesso? C’è qualcosa che sta accadendo proprio in questo momento». Da qualche parte in Ucraina, le bombe piovono ancora. I civili sono intrappolati nelle cantine o sotto le macerie. I russi continuano a perpetrare crimini di guerra, stupri e torture. I missili russi hanno spianato intere città. Mariupol è assediata, insieme ai suoi ultimi difensori. Una battaglia campale è iniziata a est del Paese. Nel mezzo di tutto questo, Zelensky, il comico diventato presidente, sente ancora il bisogno di chiamare il mondo a raccolta intorno a sé, per convincere i capi di governo che il suo Paese ha bisogno del loro aiuto, adesso, e a ogni costo.
La guerra su Instagram
Al di fuori dell’Ucraina, mi dice Zelensky, «la gente guarda la guerra su Instagram, sulle reti social. E quando si stufano, passano ad altro». Fa parte della natura umana. Gli orrori ci costringono a chiudere gli occhi. «C’è troppo sangue», mi spiega. «Troppe emozioni». Zelensky sa benissimo che l’attenzione internazionale comincia ad affievolirsi, e questo lo spaventa tanto quanto i bombardamenti russi. Tutte le notti, quando studia l’agenda, la sua lista di impegni non riguarda tanto la guerra, quanto il modo in cui essa viene percepita. La sua missione è quella di far provare che cosa significa questa guerra al mondo libero, al pari dell’Ucraina che la sta vivendo: è questione di sopravvivenza.
E sembra riuscirci. Gli Stati Uniti e l’Europa intera sono accorsi in suo aiuto, fornendo al suo Paese un quantitativo di armi senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Migliaia di giornalisti sono venuti a Kiev, a chiedere interviste con il presidente.
(...) Due mesi di guerra l’hanno indurito, l’hanno reso pronto all’ira e avvezzo al rischio. I soldati russi sono stati a un soffio dal piombargli addosso, a lui e alla sua famiglia, nelle prime ore di guerra. Dal suo ufficio si sono sentiti i colpi d’arma da fuoco. Lo tormentano le immagini dei civili massacrati. Così pure gli appelli quotidiani che gli lanciano i suoi soldati, a centinaia ancora intrappolati nei tunnel sotterranei, e ormai a corto di cibo, acqua e munizioni.
(...) Durante le prime settimane dell’invasione, quando l’artiglieria russa era a poca distanza da Kiev, Zelensky non aspettava il sorgere del sole per chiamare il suo generale a rapporto. La prima telefonata era intorno alle 5 del mattino, prima ancora che la luce del giorno cominciasse a filtrare attraverso i sacchetti di sabbia accatastati davanti alle finestre del palazzo presidenziale. In seguito, l’hanno spostata di un paio d’ore, per consentire a Zelensky di fare colazione – sempre a base di uova – e di raggiungere gli uffici presidenziali.
Questi locali sono cambiati ben poco dall’inizio del conflitto. È un guscio ovattato di dorature e mobilio barocco che Zelensky e i suoi trovano opprimente. («Almeno se ci bombardano ci saremo liberati di questi arredi», ha scherzato uno di loro.) Ma le strade attorno ai palazzi del governo sono diventate un labirinto di posti di blocco e barricate. Le auto dei civili non possono avvicinarsi e i soldati chiedono ai pedoni la parola d’ordine, che cambia di giorno in giorno, spesso frasi senza senso, che risultano difficili da pronunciare per un russo.
I ricordi delle prime ore
Al di là dei posti di blocco si trova il distretto del governo, conosciuto come il Triangolo, che le forze armate russe hanno tentato di espugnare all’inizio dell’invasione. Quando ho accennato a quelle prime ore, Zelensky mi ha avvertito che i suoi ricordi sono molto frammentari, un insieme confuso di immagini e rumori. Il momento più drammatico si è verificato all’alba del 24 febbraio, quando si è recato con la moglie Olena dai figli per avvertirli che erano iniziati i bombardamenti e per prepararli a lasciare la casa. La figlia ha 17 anni e il figlio 9, entrambi grandi abbastanza per capire il pericolo. «Li abbiamo svegliati», racconta Zelensky, abbassando lo sguardo. «Era il finimondo. Si sentivano esplosioni da quella parte».
Si è capito ben presto che gli uffici presidenziali non erano il posto più sicuro. I militari hanno informato Zelensky che i commando russi si erano paracadutati in città per ucciderlo o catturarlo insieme alla sua famiglia. «Prima di quella notte, erano cose che si vedevano solo al cinema», dice Andriy Yermak, il capo di gabinetto.
Mentre i soldati ucraini respingevano i russi nelle strade, le guardie presidenziali hanno isolato il complesso con tutto quello che sono riuscite a trovare. Un cancello dell’entrata sul retro è stato bloccato con le barricate della polizia e tavole di compensato, più un cumulo di rottami che un fortilizio.
Amici e sostenitori si sono precipitati al fianco di Zelensky, talvolta in violazione dei protocolli di sicurezza. Alcuni di loro hanno portato in salvo le famiglie nel palazzo presidenziale. In caso di morte del presidente, la catena di comando in Ucraina prevede la presa in carico del governo da parte del presidente del parlamento. Ma Ruslan Stefanchuk, che detiene quell’incarico, è arrivato dritto in via Bankova la mattina dell’invasione anziché cercare rifugio altrove.
Stefanchuk è stato tra i primi a vedere il presidente nel suo ufficio quella mattina. «Non ho visto paura sul suo viso», mi dice, «ma solo una domanda: com’è potuto accadere?». Per mesi Zelensky aveva sdrammatizzato gli avvertimenti di Washington, che la Russia stava per lanciare l’invasione. In quel momento però ha capito che era scoppiata una guerra totale, sebbene non riuscisse ancora ad afferrarne appieno il significato. «Queste parole possono sembrare esagerate», dice Stefanchuk, «ma abbiamo avvertito nettamente il crollo dell’ordine mondiale». Subito dopo il presidente del parlamento si è precipitato nell’aula parlamentare per assistere al voto che imponeva la legge marziale in tutto il Paese. Zelensky ha firmato il decreto quello stesso pomeriggio.
La presidenza armata
Al calar della notte quella prima sera, le sparatorie si sono fatte sentire nel quartiere governativo. Le guardie all’interno dei palazzi hanno spento tutte le luci e distribuito i giubbotti antiproiettili e i fucili d’assalto a Zelensky e a una decina dei suoi uomini. Ma solo pochi di loro sono in grado di maneggiare le armi. Uno di questi è Oleksiy Arestovych, un veterano dei servizi segreti militari ucraini. «Era un manicomio», mi dice. «Armi automatiche consegnate a tutti». I russi, aggiunge, hanno fatto due tentativi di assaltare il palazzo. Più tardi, Zelensky mi ha rivelato che la moglie e i figli erano accanto a lui in quel momento.
Subito dopo sono arrivate le offerte, da parte delle forze americane e britanniche, di evacuare il presidente e i suoi uomini. L’idea era quella di aiutarli a stabilire un governo in esilio, con ogni probabilità nelle regioni orientali della Polonia, da dove avrebbero potuto continuare a dirigere le operazioni di guerra. Tra gli uomini di Zelensky, nessuno ricorda che il presidente abbia mai preso sul serio quella proposta. Su una linea telefonica sicura, stabilita con gli americani, ha risposto con quella frase che ha fatto il giro del mondo: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio».
«Ha avuto coraggio», commenta un ufficiale americano. «Ma ha rischiato tantissimo». Le guardie del corpo di Zelensky concordano. Lo hanno esortato a partire immediatamente. I palazzi del governo sorgono in un quartiere densamente popolato, circondato da abitazioni private che avrebbero potuto servire da covo per i cecchini nemici. Alcune case sono così vicine che sarebbe possibile colpire una finestra con una granata scagliata dall’altro lato della strada. «Il palazzo è esposto», dice Arestovych. «Non avevamo nemmeno i blocchi di cemento per sbarrare la strada».
Fuori dalla capitale, un bunker sicuro attendeva il presidente, equipaggiato per sostenere un assedio prolungato. Ma Zelensky si è rifiutato di andarci. Invece, la seconda notte dell’invasione, mentre le forze ucraine respingevano i russi nelle strade accanto al palazzo, il presidente ha deciso di uscire all’aperto, in cortile, e filmare un messaggio sul suo telefonino. «Siamo tutti qui», ha detto Zelensky, dopo aver fatto l’appello degli ufficiali al suo fianco. Indossavano tutti le magliette e le giacche verdi dell’esercito, che sarebbero diventate le loro uniformi in tempo di guerra. «Siamo tutti qui a difendere la nostra indipendenza, a difendere il nostro Paese».
È allora che Zelensky ha capito qual era il suo ruolo in questa guerra. Gli occhi della sua gente e di tutto il mondo erano puntati su di lui. «Lo sai che ti stanno guardando», dice. «Sei diventato un simbolo. E devi comportarti come un capo di Stato».
(Traduzione di Rita Baldassarre per il Corriere della Sera)
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