Corriere della Sera, 29 aprile 2022
Biografia di Edoardo Leo raccontata da lui stesso
Piano A: diventare calciatore («Sono stato un adolescente morigerato: non bevevo, non fumavo, niente stravizi, il sabato sera non uscivo, lo sport era tutto. Fino a 21 anni, quando ho smesso, sono stato molto disciplinato»). Piano B: diventare insegnante («Merito o colpa di un insegnante di italiano, Giaime Rodano: per la prima volta nella mia vita ho incontrato qualcuno che faceva un lavoro per passione. Non ne conoscevo. Nonno contadino a Sutri, mia nonna pescivendola, mio padre, che si era smarcato dalla campagna per venire a lavorare a Roma negli anni Settanta, aveva amici che facevano gli elettricisti, cose così. Tutti gran lavoratori ma per necessità, non passione»). Professione certificata: attore, regista e sceneggiatore. Edoardo Leo precisa che è capitato un po’ per caso. «Andavo ai provini perché volevo pagarmi l’università da solo, volevo dimostrare ai miei che non era una pazzia essermi iscritto a Lettere dopo essermi diplomato a fatica al liceo scientifico. Mi sembrava un lavoro come gli altri: ho fatto il pony express, con un amico scaricavamo il latte di notte, ho lavorato al chiosco del cimitero di Sutri dei miei zii. Puntavo agli spot: poco tempo, buon guadagno».
Ha appena compiuto i 50 anni, il 21 aprile, giorno del Natale di Roma.
«È una banale coincidenza, ma ogni coincidenza la si può vedere in modo romantico. Pensare di essere nato lo stesso giorno della mia città mi sembra un piccolo destino per chi come me racconta storie. I 50 non sono una data che mi spinge a fare resoconti, a guardarmi indietro, me la faccio scivolare addosso».
Niente festone?
«Cena con le persone più intime. La festa è stata avere in sala Power of Rome, associare la mia faccia a quella della mia città sugli autobus di tutta Roma. Non posso più girare in motorino, sempre dietro a me stesso. Non sono autocelebrativo ma questo, ammetto, mi fa piacere».
La sua vita (professionale) comincia a 40 anni. La trilogia di «Smetto quando voglio», l’approdo alla regia, il successo straordinario di «Perfetti sconosciuti», il Dopofestival, «La Dea Fortuna» di Ozpetek, il doc su Gigi Proietti, la tournée con «Ti racconto una storia».
«Ho alle spalle trent’anni di gavetta, non di carriera. Sembro professionalmente giovane».
In principio ci furono le bocciature all’Accademia Silvio D’Amico e al Centro Sperimentale.
«Se rivedessi il mio esame all’accademia forse mi boccerei anch’io. Ricordo che mi dissero: “sai urlare”. Ci ho sofferto, ho pensato di non essere all’altezza. Ho sviluppato quello che è stato un motore della la mia vita: un senso di rivalsa. Volevo emanciparmi dagli stereotipi. Non ero figlio d’arte e pensavo di poter fare comunque l’artista, non venivo da una famiglia di gente che ha studiato e mi sono laureato, convinto che così mi sarei potuto affrancare dall’immagine del ragazzotto con la faccia da calciatore e le spalle larghe. La voglia di rivalsa se non ti logora ti aiuta. Anche a fare il regista. Ho scritto la sceneggiatura di Diciotto anni dopo ma nessuno voleva dirigerla, così l’ho fatto io. Ed è cambiato tutto».
Per spirito di rivalsa si inventò un diploma alla Scuola La Scaletta? Che ora, per la cronaca, la segnala tra i suoi allievi sul suo sito.
«Ha funzionato. Grazie a quel curriculum mi arrivò un provino per una coproduzione italofrancese e il primo ruolo, uno psicopatico di nome Olmo. Poi sono arrivate tante cose. Ho fatto un sacco di fiction brutte, ma pure alcuni film brutti. Non avevo possibilità di scelta. Si chiamava “pagare gli affitti”. Ho vissuto anche una grande frustrazione. Pensavo di meritare più possibilità di quante me ne davano. Ho vissuto periodi difficilissimi, sono stato pure cacciato da una serie televisiva dopo due settimane».
Che serie era?
«Non voglio riaprire il file, era un produttore allora molto famoso. È qualcosa che a 27, 28 anni ti mette in crisi».
L’ha incontrato di nuovo quel produttore?
«Sì ma non l’ho salutato, sono stato mandato via in maniera cattiva. Dopo un periodo un po’ di depressione mi sono risvegliato. Mi hanno aiutato altri incontri, fortunati, come Nino Manfredi, uno dei miei supereroi con Scola. E Proietti. Mi smontò subito. Lui mi ha cambiato».
In che modo?
«Non ho studiato con lui, ci ho lavorato per la prima volta in teatro per Dramma della gelosia. Mi disse: “Non provare a fare il figo, perché non sei figo. Tu fai ridere”. Aveva ragione, mi immaginavo nei panni dell’eroe, mi ha fatto capire che ero destinato a fare l’antieroe. Però ci ho messo un po’ a fare la commedia perché non mi prendevano in considerazione per i ruoli buffi. Era pure colpa mia, facevo foto in cui cercavo di fare il figo e non lo ero».
Veramente è considerato un bello del nostro cinema, ci dovrebbe fare pace con questa cosa.
«Cito ancora Proietti. Nel mio doc dice: “non ho la tempra del divo”. Ecco, la tempra del figo la devi avere, io non ce l’ho. Ho smesso di preoccuparmi del mio aspetto fisico, della parte glamour, se vedo le foto anche solo di 15 anni fa con la sigaretta, l’occhio a fessura, lo sguardo rivolto all’orizzonte mi faccio ridere. Faccio pochi servizi fotografici, vado poco in tv».
Ha fatto il «Dopofestival» nel 2018, però.
«Condurre non è il mio pane. È stato bello ma anche in quel caso ci misi tanto a dire di sì. Il problema è che io sono lento a valutare le cose, ho in comune con Roma la lentezza, anche a scrivere».
La chiamassero a Sanremo andrebbe? Fa pure il cantante con l’Orchestraccia.
«Mi chiamassero al festival, andrei, mi divertirebbe. L’Orchestraccia è nata perché ci piace cantare le canzoni delle nonne, mi ero accorto che tanti ragazzi non le sanno. Le canzoni tradizionali romane sono molto violente, tragiche, c’è sempre qualcuno morto ammazzato. La violenza sembra un destino quasi genetico di questa città, che si fonda, tra leggenda o realtà, su un fratricidio. Anche la storia dell’Impero romano oscilla tra volontà di dominio e autodistruzione. Quella violenza ce la portiamo dentro, oggi meno fisica e sempre più verbale. Viviamo una contraddizione, odio e avversione per chi ci governa e una forma di accettazione ossequiosa, non se ne esce».
Errori di cui è pentito?
«Diversi quando non potevo scegliere, per bisogno. Ora che posso farlo, mi rimprovero forse di fare troppe cose. Ma ho fatto talmente poco fino ai 40 anni, che in questi ultimi 10 un po’ di bulimia magari ci sta».
Adolescente ligio alle regole, sarà stato un idillio con i suoi genitori.
«Ho litigato con mio padre per decenni, ormai il conflitto si è risolto per fortuna. Litigavo per lo studio, mi sono diplomato con il minimo dei voti, lui il diploma l’ha preso alle scuole serali, lavorava, aveva già un figlio. Poi quando ho deciso di fare l’attore, litigate feroci, non ci siamo parlati per un po’ di tempo. Però io studiavo di notte, mai aperto un libro prima delle nove di sera, scrivo di notte anche ora. Per una famiglia di impiegati come la mia, una cosa strana. Sono il primo laureato. Quel 110 e lode aveva anche il valore del riscatto. E ho tenuto fede alla promessa stupida che mi ero fatto».
Ovvero?
«Che se avessi preso il massimo dei voti l’avrei messo in bagno. Il diploma di laurea sta lì, incorniciato sopra la tazza».
È riservatissimo in tema di vita privata, non parla mai di sua moglie e dei suoi figli. Perché?
«È una scelta a priori a cui tengo fede da sempre. Magari ho perso qualche copertina sui giornali per il mancato racconto dei miei affetti privati. Secondo me faccio bene, per tanti motivi. Non ultimo il fatto che è complicato fare il padre quando la tua faccia sta in giro, devi mantenere equilibrio e sobrietà, è facile perdersi. È un punto che mi sono dato. Non è difficile, davvero».
C’entra anche una forma di timidezza?
«Riservato, timido no. Posso stare nudo in palcoscenico ma se devo entrare nella sala di un ristorante piena di gente vorrei scomparire, mi sento gli occhi addosso: al di fuori del mio mestiere non mi piace».
Disordinato, notturno, ritardatario, gli stessi amici, le stesse canzoni. Lei si racconta così.
«Non c’è granché da dire. Ho un ufficio, vado, scrivo, non è una biografia eroica. Ai ragazzi che vogliono fare questo lavoro dico: leggete le biografie degli attori. Io le adoro. Quelle degli altri».
Tifoso giallorosso: meglio un David di Donatello per la regia o cinque minuti in campo all’Olimpico?
«Cinque minuti in campo con la Roma. Magari un David prima o poi arriva. Quando sono in teatro davanti a 3.000 persone da solo, sento una vertigine simile a quella che credo provi un calciatore che segna davanti ai suoi tifosi».
A calcio gioca ancora?
«Da più di 15 anni, con lo stesso gruppo di amici. Uno ha una tavola calda a Montesacro, il Papero giallo, ci chiudiamo dentro dopo la partita. Per me è un’oasi. Nessuno di loro fa il mio mestiere, ascolto vita, lì conta solo come ho giocato non quello che faccio. Non ci rinuncio mai prendo treni, aerei per esserci. A fare l’attore c’è il rischio di chiuderti in una bolla. Vivere dentro a un Ncc. Preferisco la Vespa».
Ha tradotto l’Otello in napoletano e romano.
«Per il nuovo film, Non sono quel che sono. L’ho tenuto in serbo per anni, doveva essere il mio esordio alla regia. Ambientato ai giorni nostri, io recito Iago. Nel cast ci sono Ambrosia Caldarelli, Jawad Moraqib e Antonia Truppo. Il mio sogno sarebbe poi portarlo in teatro, al Globe. Non so ancora la data di uscita».
Rimpianti?
«No, ma secondo me ho fatto poco. Per un po’ mi è pesato che certi registi non mi considerassero. Poi sono arrivati Genovese, Ozpetek. Mi piacerebbe lavorare con Virzì, lo conosco bene, e poi Salvatores, Garrone, Sorrentino. Con autori che non mi hanno chiamato. Mai dire mai».