Specchio, 24 aprile 2022
Storie di atleti che hanno combattuto i regimi
Mercoledì 25 aprile 1945 un sole già estivo saluta l’ingresso dei partigiani e degli alleati nelle città liberate dal fascismo. Cambia l’Italia, cambia l’Europa e cambia il mondo. Gino Bartali ha trentun’anni, è appena riemerso dalla quasi clandestinità in cui ha vissuto parte dell’occupazione e si prepara per il Giro del Lazio, che vincerà ad ottobre, preannunciando il trionfo al Giro d’Italia del 1946. Ludwig Guttmann dirige un centro medico d’eccellenza a Stoke Mandeville, dove lavora dal 1939, cacciato dall’ospedale di Breslavia perché ebreo. Otto Peltzer si trova a Mauthausen, deportato con il triangolo rosa degli omosessuali e detenuto fino all’arrivo ormai imminente della terza Armata americana. Vera Caslavska non ha ancora compiuto tre anni nella Praga che in attesa dell’esercito sovietico cova l’insurrezione mentre il pugile Victor Perez non c’è più da tre mesi, stroncato dalla marcia della morte tra un sottocampo di Auschwitz e Gleiwitz. Anche Matthias Sindelar non festeggia nella sua Vienna la caduta di Hitler perché è morto nel 1939.
Eroi europei
Gino Bartali, Vera Caslavska, Ludwig Guttmann, Otto Peltzer, Victor Perez, Matthias Sindelar, sono alcuni degli atleti che hanno legato il loro nome al secolo breve, contribuendo, ciascuno a proprio modo, alla resistenza culturale, sociale e politica da cui è germogliata l’Unione europea, una parentesi di pace e democrazia tra le guerre di ieri e quelle odierne. A loro e alle loro sfide è dedicata la ventiduesima edizione della Corsa di Miguel che si svolge domani, dieci storie quanti sono i chilometri del percorso romano ricostruite dall’associazione civica europaNow! e pubblicate in un volumetto dal titolo «Passaggio di testimone» edito da People. Lo sport, come l’ideologia, si nutre di simboli. Le dittature hanno sempre costruito la propria propaganda sull’epopea ginnica del popolo vittorioso, dal documentario Olympia, girato da Leni Riefenstahl per le Olimpiadi di Berlino del ’36, fino alle Spartiachiadi dei Popoli dell’Unione Sovietica passando per il plumbeo mondiale di calcio del ’78 vinto dall’Argentina padrona di casa e rivendicato dalla giunta militare di Jorge Rfael Videla, responsabile della vita di 30mila desaparecidos tra cui Miguel Benancio Sanchez, il poeta maratoneta a cui si deve la Corsa di Miguel.
Anche la democrazia però, ha una sua storia sportiva di cui si trovano tracce in Antonio Gramsci, che alla metà degli anni Trenta, nei Problemi della cultura nazionale, ragiona del potenziale culturale dello sport in grado di «evolvere da consenso e adesione passivi a veicolo di formazione, conoscenza e confronto». È una storia sportiva che reitera il passaggio di testimone dai giorni più bui fino ad oggi, settantasettesimo 25 aprile, l’anniversario funestato dalle polemiche tra una parte dell’Anpi e la dignità da riconoscere alla resistenza ucraina. Gino Bartali, «il Gigante delle Montagne», è già una leggenda del ciclismo quando, all’inizio del 1940, la Wermacht dilaga a Parigi e Mussolini ne approfitta per dichiarare guerra alla Francia, occupando diversi comuni frontalieri. Non corre buon sangue tra il campione e il regime, che nel 1938 gli ha imposto di rinunciare al Giro d’Italia per dedicarsi al Tour de France salvo poi, in barba alla maglia gialla conquistata oltralpe, darlo in pasto alla stampa come traditore della patria per essersi ritirato dal campionato del mondo in spregio all’orgoglio littorio. Bartali, cattolico devoto, pedala in un’altra direzione. Da tempo, con l’amico e arcivescovo di Firenze Elia Angelo Dalla Costa, aiuta l’organizzazione clandestina dal rabbino Nathan Cassuto a portare in salvo gli ebrei braccati nascondendo nel telaio i documenti falsi necessari alla fuga, un’impresa che nel 2013, a tredici anni dalla sua scomparsa, gli varrà il riconoscimento dello Yad Vashem di Giusto tra le nazioni. Un simbolo. Ai controlli ripetuti dell’Ovra ha sempre opposto l’inviolabilità di una bici calibrata per primeggiare, ed è passato.
Una rete per la salvezza
Si dice che siano ottocento gli ebrei sopravvissuti grazie alla rete di cui faceva parte Gino Bartali, un dato ricordato nel 2005 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel consegnare alla vedova del campione, Adriana, la medaglia d’oro al valore civile, quella appuntata virtualmente sul petto di tanti antifascisti come don Pietro Pappagallo, l’unico prete cattolico assassinato alle Fosse Ardeatine nel 1944. Avrebbe forse potuto sopravvivere e non è sopravvissuto anche Victor "Young" Perez, il più giovane campione dei pesi mosca della storia uscito indenne da mille ring per finire deportato ad Auschwitz e morire marciando verso la Germania, tra i cani e le SS, a guerra ormai finita. Messaoud Hai Victor Perez è poco più di un ragazzo quando all’inizio degli anni Trenta sbarca a Parigi lasciandosi alle spalle l’infanzia poverissima nel ghetto ebraico di Tunisi, dove boxando ho guadagnato l’emancipazione sociale e, alto com’è appena un metro e mezzo, il soprannome di "Young". La sua carriera brucia veloce come un cerino. In patria è un eroe interreligioso, in Francia si accompagna alle attrici del momento, il milieu di Jean Gabin. Poi comincia a prendere peso e perdere colpi. Nel giro di tre anni, messo ko da Panama Al Brown, il miglior pugile del momento, Perez è finito. Gli resta ancora lo spettacolo, tira pugni per pochi soldi in palestre di basso rango finché si ritrova a Berlino per affrontare l’austriaco Ernst Weiss e viene messo alle corde tra il disprezzo del pubblico e gli insulti antisemiti. È il 9 novembre 1938, la Notte di Cristalli, e non ci sarà più luce. Tornato a Parigi, convinto di potersi proteggere dietro la sua popolarità, viene invece arrestato nel settembre 1943 e deportato a Monowitz-Buna, il sottocampo di Auschwitz che lo vedrà combattere altre 140 volte contro detenuti e soldati nazisti, un piccoletto pelle e ossa al centro del peggiore dei ring per una gamella di zuppa ma anche il vendicatore che prende a pugni il male assoluto. Morirà due anni dopo, in marcia con un esercito di fantasmi nella colonna sferzata dai tedeschi già sconfitti. Il 9 novembre 1938 sotto il cielo della grande Germania c’è anche il neurologo di origine prussiana Ludwig Guttmann, il futuro padre delle Paraolimpiadi che in quel momento, privato della cattedra universitaria dalle leggi razziali, può curare nell’ospedale di Breslavia solo pazienti ebrei. E falsificando le cartelle cliniche ne salva alcune decine. Guttmann ha quasi quarant’anni, una montagna d’esperienza e l’orizzonte precluso. Ripara così a Londra, dove alla fine della guerra il governo gli affida la direzione del Centro per le lesioni spinali di Stoke Mandeville, alle porte della capitale, l’estremo ricovero per i piloti della Royal Air Force mutilati in combattimento. È qui che l’autoritario dottore mette in pratica il lungo tirocinio giovanile all’Accident Hospital di Königshütte, una corsia dopo l’altra di paraplegici e inguaribili infortunati sul lavoro, pazienti condannati al letto. Fino a quel momento. Guttmann però rivoluziona le regole della degenza e introduce lo sport come parte integrante del programma riabilitativo: i malati devono esercitarsi ogni giorno a tirare con l’arco, praticare un’ora di tennis tavolo, giocare a basket, tutto con la stessa regolarità con cui si assumono le medicine. E poi la sfida, la competizione, la cura contro l’autocommiserazione e l’abbandono. Sperimentate sul prato all’inglese di Stoke Mandeville da quattordici degenti uomini e due donne, nascono così le Paraolimpiadi che internazionalizzandosi diventeranno effettivamente tali solo nel 1960, in concomitanza con i Giochi Olimpici di Roma, quando per la prima volta gli atleti condividono con 400 colleghi disabili rappresentanti di ventitré paesi gli stessi alloggi e gareggiano sulle stesse piste.
Simboli immortali
Sono storie di porte girevoli quelle degli atleti che hanno scelto di passare la palla anziché salvarsi in solitaria. Come Matthias Sindelar, il calciatore austriaco soprannominato "cartavelina" per la destrezza nell’insinuarsi dentro spazi ridottissimi e tirare in porta che, all’apice della carriera, rifiuta di piegarsi all’Anschluss e scarta: quando nel 1938 il Reich obbliga le squadre a cacciare via i propri dirigenti ebrei lui non ci sta e di fronte al gerarca hitleriano che impone l’addio al presidente della sua Austria Vienna, Michl Schwarz, replica «Io, signor presidente, la saluterò sempre». Sindelar ha 35 anni. Resterà in campo ancora per poco, il tempo dell’ultima partita, 3 aprile 1938, Prater-Stadio, 60 mila spettatori fra cui il Ghota del nazismo: la nazionale austriaca sfida quella tedesca per celebrare l’annessione e dissolversi nell’abbraccio totalitario ma lui, "il Mozart" del pallone, dice ancora no e rifiuta di accettare il pareggio concordato. Segnerà il gol della dignità, prima di eclissarsi e morire due anni dopo in un mai chiarito incidente domestico insieme con la fidanzata ebrea italiana. C’è poi Otto Peltzer, l’atleta tedesco e recordman mondiale degli 800 e 1.500 metri che nel 1926 restituisce l’orgoglio alla Germania umiliata dopo la prima guerra mondiale trionfando a Berlino nel mezzofondo. Ha 26 anni ed è già leggenda. Eppure, lanciato verso traguardi irragiungibili, non conquisterà mai una medaglia olimpica. Mentre Peltzer corre infatti, Adolf Hitler è salito al potere. Lui, come molti, ha preso la tessera del partito nazista ma non basta, perché è omosessuale e la razza ariana non ammette eccezioni. Dopo una serie di denunce e di arresti emigra a Stoccolma, dove finisce ad allenare il club sportivo ebraico della città. Tornerà in Germania nel 1941 per essere deportato a Mauthausen e lì "rieducato". Lo ritroviamo dopo la guerra, libero ma ancora vittima di una cultura omofoba che sopravviverà ancora un anno alla sua morte, fino al 1968, la rivoluzione sessuale e la liberalizzazione dell’omosessualità nella nuova Germania.
Nell’ottobre di quello stesso anno la ginnasta cecoslovacca V?ra ?áslavská è sul primo gradino del podio dei giochi olimpici di Messico. Accanto a lei, sale anche la sovietica Larisa Petrik, designata prima ex aequo dopo un riesame delle votazioni della giuria. Si pensa che possano esserci dietro le pressioni da parte di Mosca, irriducibili ad accettare la vittoria di una campionessa che ha protestato contro l’invasione della Cecoslovacchia. Per lei comunque conta denunciare l’oppressore che due mesi prima ha soffocato la Primavera di Praga e il sogno di un «socialismo dal volto umano». Mentre in Messico i velocisti americani Tommie Smith e John Carlos a piedi nudi e capo chino sollevano il pugno contro la discriminazione americana nei confronti dei neri, V?ra ?áslavská abbassa la testa, l’inno sovietico celebra la medaglia di Larisa Petrik e lei, sdegnata, gira il capo altrove.