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 2022  aprile 24 Domenica calendario

Biografia di Gabriele Lavia raccontata da lui stesso

Carlo con Gabriele Lavia per un’ora e mezza della sola cosa che conta per lui: il teatro. Se svio, riporta sempre tutto lì. Chiude ogni risposta con un sospiro profondissimo, molto drammatico, perfetto per far piangere e per far ridere, e poi dice: «Fare l’attore è troppo difficile, anzi è impossibile, capisce?».
Una volta, alla fine del suo spettacolo Lavia dice Leopardi, al Vascello di Roma, qualcuno gli urlò dalla platea: «Facci l’infinito!». E lui, che per dure ore era stato sul palco a fare dei versi di Leopardi una specie di concerto rock, chiamando il pubblico a finirli o a dirli insieme a lui, rispose: «E no, signora, l’Infinito non si può recitare». Quando gli dico che, per impossibile che sia, lui ha recitato per tutta la vita, risponde: «Mah. Ho soltanto tentato».
Si è sposato tre volte e sempre con un’attrice. I suoi figli sono attori. I suoi amici fraterni sono stati i suoi maestri: attori e registi anche loro. A ottobre farà ottant’anni, in teatro ha debuttato che ne aveva ventuno. Ha recitato anche per il cinema, diretto sette film, doppiato alcune parti indimenticabili (la voce di Stanley Tucci nel Diavolo veste Prada è la sua; è lui che dice «Lo sai, vero, che la cellulite è uno degli ingredienti principali della minestra di mais?»).Ha diretto lo Stabile di Torino, l’Eliseo di Roma e adesso il Teatro della Pergola di Firenze, dove in questi giorni ha portato in scena la sua lettura della favole di Oscar Wilde, quelle che scrisse per i suoi figli Cyril e Vyvyan.
Sulla presentazione del suo spettacolo c’è scritto che Wilde voleva divertire e soprattutto educare i bambini a una vita giusta e felice.
«Può funzionare anche con gli adulti. È un grandioso, disperato proposito. Io ho avuto molti figli, quindi sono stato addestrato a raccontare le favole. Ne inventavo sempre di nuove e diverse. Alcune me le chiedono ancora».
Me ne dica una.
«Escluso, mi imbarazza».
Erano così brutte?
«Mi ci mettevo sempre io dentro, raccontavo di streghe cattive che mi impedivano di imparare la mia parte a memoria, di arrivare sul palco, di tornare a casa».
Anche quando sale sul palco inventa?
«Soprattutto. Lì ciascuno si inventa ciò che sa casualmente sa a memoria».
Casualmente?
«Imparare la parte a memoria è un caso. La si deve poi dire all’improvviso, come se fosse sempre la prima volta, senza mai ripetere. Come quando si fa l’amore: dev’essere ogni volta diverso, ogni volta un incontro nuovo. Ci sono cose nella vita che non si possono ripetere perché si possono soltanto improvvisare, che non vuol dire inventare a caso, ma aver studiato».
È soltanto l’improvvisazione che rende irripetibile la rappresentazione teatrale?
«E il pubblico. Il teatro ha bisogno sempre della presenza di chi si riflette, si rispecchia nell’azione messa in scena. L’attore, per consentire che questo accada, deve stare sotto l’azione: nascosto. In greco, infatti, attore si diceva upocritès: sotto la maschera. Dove sta un bambino che gioca a nascondersi. L’ideale sarebbe che il pubblico, quando ci vede recitare, non fosse in grado di riconoscerci. Ma è troppo difficile: bisognerebbe essere un dio. Non il dio giudaico-cristiano, ma un dio dei greci».
Ma così non crolla il metodo Stanislavskij e tutto il discorso sul sublimare il proprio vissuto in quello del personaggio?
«Al contrario. Stanislavskij aveva compreso che c’è un solo modo di recitare un altro inesistente, per dargli corpo anima voce pensiero : pensare "se io fossi lui". Concentrarsi sull’altro esponendo se stessi. Concentrarsi significa andare al centro di una cosa con qualcuno. Non si tratta di diventare Amleto se faccio la parte di Amleto, ma di mettermi in quel centro con lui. Io non posso diventare un altro: posso diventare me stesso se sono con l’altro. L’essere, dice Heidegger, è un essere con, un essere in e un essere per. A teatro, l’essere con è il personaggio; l’essere in è il palco; l’essere per sono gli altri. Questo è recitare. E da spiegare è facile. Da fare è impossibile. Nell’arco di uno spettacolo, è tanto se ci si riesce per 10, 15 secondi».
Ha detto una volta che nessuno sa cosa sia il teatro.
«Io però lo so. Basta come sempre ricorrere al greco antico: tea più tròn. Il teatro è il trono della dea, il luogo ideale della dea».
Quale dea?
«La svelatezza (alèteia, sempre in greco). Non è un caso che ci sia un velario, quello che noi chiamiamo sipario, davanti al palcoscenico: i greci lo chiamavano più semplicemente tenda. In principio, era una tenda nera: diventò rossa dopo la morte di Sofocle, in tributo al sangue degli occhi di Edipo. I latini tradussero male svelatezza: la intesero come verità, che per loro era una imposizione che veniva dal vincitore e che diventava un fatto definitivo. Per i greci, invece, il processo di disvelamento non porta mai a un punto fermo e certo: parlavano di svelatezza e non di verità perché avevano compreso che tutto è mistero e abisso. Il teatro è il tentativo di svelare e indagare una parte di quel mistero, ed ecco perché comincia sempre aprendo un sipario, togliendo un velo. Il teatro è nato in Grecia perché lì è nato il pensiero e lì si credeva ci fossero molti dei, e quindi molti sguardi. Dio vuol dire questo: sguardo. E l’attore fa il suo mestiere quando lo spettatore sente quello sguardo: percepisce che è stato colto, che zio Vanja lo coinvolge perché lo guarda».
Il pubblico è mai di intralcio?
«Sempre. Non c’è niente di peggio che avere davanti un pubblico fintanto che non riesci a trasformarlo in spettatore. Un produttore americano diceva che il pubblico andava preso per le palle e trascinato dentro lo schermo. Vale anche a teatro: devi prendere la signora che siede in prima fila e disturba il tuo spettacolo scartando una caramella (non c’è niente al mondo che faccia più rumore di una caramella scartata in prima o in seconda fila), prenderla per le palle, e buttarla sul palco. Metaforicamente, s’intende».
Molto cruento.
«Delicatissimo. Gli attori sul palco si passano continuamente un vaso di cristallo nel tentativo di non romperlo. Il vaso è il testo».
Ma lei ha sempre detto che i testi li guasta, li tradisce.
«Perché non c’è altro modo: bisogna ammaccarli ma non romperli».
Non ha paura di non essere capito?
«Non mi importa di essere capito, io faccio questo mestiere perché se non lo facessi morirei».
Perché in Italia le stagioni dei teatri sono piene di rivisitazioni, adattamenti, destrutturazioni e non c’è quasi mai niente di nuovo?
«Perché nuovi grandi autori non ce ne sono. Scrivere per il teatro è difficilissimo: ci sono riusciti in pochi, quelli baciati dal dio. Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, Pirandello. Magari il nuovo genio che racconterà il nostro tempo a teatro sta nascendo o è già nato e non lo sappiamo, e non lo sa ancora neanche lui».
Magari non lo sa perché nessuno scommette su di lui.
«I problemi del teatro, in questo paese, sono altri: la raccomandazione, prima di tutto. Poi, le scuole di recitazione. Poveri ragazzi ingenui gettati nelle mani di sciamannati ignoranti».
Chi può aiutare il teatro?
«Qualcuno che ne capisca».
Che capisca cosa?
«Prima di tutto, che il teatro non è cultura: è l’essere. È a teatro che l’uomo ha capito di essere uomo, vedendosi rappresentato e riconoscendosi».
Quindi, nel pratico?
«Nel pratico, ha bisogno di un ministero a parte».
Lo immagino come un inferno burocratico.
«Ma infatti sa cosa penso, in realtà? Che il teatro se la cava benissimo da solo: resiste grazie a chi lo fa. Resiste nonostante venga continuamente mortificato per fare i numeri che servono a pagare 15 mensilità non agli attori ma agli impiegati di una grande macchina di intrattenimento che riempie le sale con dei trucchi, chiamando gli allievi delle scuole a leggere qualsiasi cosa meno che una drammaturgia».
Però la gente va anche a vedere gli spettacoli veri.
«Certo che ci va. Perché il teatro non morirà mai. Il cinema sta morendo, e avevano detto che avrebbe ammazzato il teatro».
Vede, però: per malandato e ingrato che sia, questo è il paese dove lei ha fatto molte cose, di successo e belle.
«Ho avuto un po’ di talento e moltissima fortuna».
Quale fortuna?
«Ho avuto dei grandissimi maestri, che poi mi hanno anche onorato della loro amicizia fraterna. Orazio Costa, Giorgio Strehler, Renzo Ricci. A Ricci una volta chiesi perché usasse un suggeritore, visto che la parte la conosceva a memoria. Mi prese per le spalle e mi disse: "Caro, hai ragione: la parte la so a memoria ma non l’ho ancora dimenticata". E allora io pensai: il vecchio è andato. Solo molti anni dopo capii che aveva ragione: recitare è dimenticare la parte. Ed è il più grande insegnamento che ho avuto da attore».
E quello che ha dato?
«Picasso diceva: io non copio, rubo. Rubare è un’arte. Dico sempre ai miei attori: rubate ma non copiate».
Come vive il nostro tempo? Sta finendo davvero l’Occidente?
«Non sono un profeta. E di certo non avrei mai creduto di vedere una tale barbarie. Putin è un uomo finito, si vede dalla sua espressione e da come tiene le mani e chissà quanto tempo gli serve ancora per rendersene conto. Io, per mia tradizione culturale, sto sempre coi perdenti e quindi ora mi sento profondamente ucraino. Mi dispiace perché amo la Russia, Dostoevskij, Pasternak, Gogol. Ma tutti loro, però, a ben vedere, erano contro il loro paese. C’è un solo modo per amare la propria terra, cioè la propria origine: detestarla».
Che fa quando non è in teatro?
«Studio».
Il suo più grande piacere?
«Studiare».
Un altro?
«Cenare con mia moglie».
«Parlare male degli altri».