Specchio, 24 aprile 2022
Storia del mostro di Terrazzo
Gianfranco a quattro anni viene affidato alle suore di un convento nel padovano. Ci rimane 24 ore su 24, sette giorni su sette. Non c’è un motivo particolare, i genitori preferiscono così, vogliono che il loro unico figlio venga educato e cresciuto in quel convitto, per poi rivederlo d’estate.
Gianfranco era nato a Montagnana il 2 ottobre 1960 da una famiglia semplice, onesta e passerà gran parte dell’infanzia tra messe, crocefissi, orazioni e sorelle per poi andare a lavorare nei campi della pianura, crescere come mille altri di quella generazione con i genitori che hanno patito la guerra e loro ancora troppo giovani per vivere le tensioni sociali degli Anni 70.
Come nella gran parte delle storie dei serial killer che raccontiamo anche per Gianfranco Stevanin c’è un momento di rottura nella normalità che lo sorregge e protegge. E quel momento sarà centrale, diventando perno e sintesi di una vita dedicata a uccidere gli altri. È il 1976 quando il ragazzo ad appena 16 anni rimane coinvolto in un incidente in moto. Subisce un grave trauma cranico con il quadro aggravato da una meningite batterica e da una serie di fratture multiple alla testa. In coma viene operato al cervello. I chirurghi trovano una lesione bilaterale dei lobi frontali e delle vie nervose collegate al sistema limbico, che raccoglie quelle strutture encefaliche che partecipano e compongono l’integrazione emotiva, istintiva e comportamentale di ciascuno di noi. A questo si accompagnano crisi epilettiche che contribuiscono a riflettere il danno neurologico patito sul carattere di Stevanin.
Le relazioni
Quest’uomo muta nelle relazioni con gli altri, nell’attività sessuale come testimoniano amici, parenti, fidanzate. Il punto di non ritorno, la frattura risale dunque a quell’incidente stradale e alla discesa negli inferi che ne è conseguita fino alla meningite. Non è certo questa la sede né per trovare nei danni patiti in gioventù un’attenuante al perfido agire di quello che diventerà il mostro di Terrazzo, né per sindacare sulla sua reale capacità di intendere e volere.
Più che altro da quei giorni Stevanin sembrava un altro, come ricordò la fidanzata: «Mite tranquillo, gentile ma dopo la meningite aveva cambiato personalità, era diventato quasi ossessionato dal sesso, un uomo incapace di comportarsi da adulto». La donna accenna a una spiccata tendenza adolescenziale, un’immaturità profonda che fanno precipitare questo giovane in un periodo di sbando, un crescendo di disorientamento ed esclusione sociale.
Di fronte a questa regressione comportamentale i genitori acuiscono la loro severità, controllano il figlio ogni giorno ma quando arriva il fine settimana e Stevanin lascia casa, può fare quello che vuole. Non solo. Al di là di una rigidità di ruolo, i genitori non lo sollecitano a trovare un lavoro, a costruire relazioni sociali, insomma lo abbandonano all’inedia, all’incapacità di prendere in mano la propria vita. In paese diventa lo scemo del villaggio: tutti lo conoscono e indicano come un ritardato mentale, un pazzo ma buono, un malato di mente comunque incapace di far male a chiunque.
Lo si vedeva passare in auto per le strade di campagna, bighellonando ore senza mete. Lo si vedeva intrattenersi con prostitute che magari lo rendevano importante con una frase, un’attenzione. Insomma, un disperato. Tra quelle quattro case nel padovano, Stevanin è fondamentalmente solo in ogni piega di vita: solo nell’affrontare la sua sessualità, solo nel curarsi, assumendo i farmaci prescritti senza regolarità, sono dal mattino alla sera nel gestire quel carattere irrequieto e convivere con i danni cerebrali patiti.
I primi reati sono di minuto cabotaggio criminale: nel 1978 finisce davanti ai giudici per aver prima rapinato con una pistola finta una ragazza e poi per essersi fatto accompagnare a una fiera da un’altra giovane, sotto la minaccia dell’arma giocattolo. E non gli manca la fantasia: in Italia si moltiplicano i sequestri di persona e così lui finge di esser stato rapito, s’improvvisa rapitore e chiede per telefono ai genitori un milione di vecchie lire di riscatto. La prima donna che uccide è uno sbaglio: nel 1983 investe una signora in bicicletta e viene condannato per omicidio colposo. È un errore che lo proietta in un’altra dimensione. Dopo qualche anno incontra Maria Luisa Mezzari, una prostituta veronese che sequestra – questa volta veramente – e violenta. Passa qualche settimana e agli inizi di luglio finisce in manette per aver rubato la targa di un’auto e per porto abusivo d’armi.
I carabinieri di Vicenza di pattuglia nella zona della prostituzione l’avevano fermato per un atteggiamento sospetto. Nel baule dell’auto il kit del sadico sessuale (una pistola scacciacani pronta e carica, coltelli, un vibratore elettrico, altri oggetti utilizzabili in rapporti particolarmente spinti). Avvolta in un panno i militari trovano in auto anche una macchina fotografica.
L’archivio
Stevanin come i predatori sessuali dei giorni nostri nutre la passione per la fotografia. Dopo aver terrorizzato il Veneto e l’Italia intera a casa gli troveranno un archivio di oltre 7mila scatti gran parte dei quali dedicati a ritrarre le sue vittime. Una parafilia che ritroviamo appunto in tanti protagonisti della cronaca nera dei nostri giorni, delle violenze ai danni di giovani che vengono fotografate dopo e durante gli atti sessuali. Basti pensare alle decine di migliaia di foto ritrovate nelle memorie di computer e telefonini di Alberto Genovese, il re Mida delle start up o alle ragazze narcotizzate per l’accusa dall’imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio di recente condannato a 15 anni di carcere con il rito abbreviato.
Ma torniamo a Stevanin perché ai carabinieri di Vicenza quella macchina fotografica in auto il 7 luglio del 1989 non dice nulla di particolare. Per un semplice motivo, il giovane non è ancora quel serial killer che qualche anno dopo sarà conosciuto in tutto il paese. Un incubo che si concluderà solo il 16 novembre 1994 quando Stevanin verrà arrestato dalla polizia al casello stradale di Vicenza ovest.
Gli agenti ancora nulla sanno dei suoi omicidi. Lo fermano per la denuncia per sequestro di persona e violenza carnale di una prostituta austriaca, Gabriele Musger. I carabinieri vogliono capire come agisce quest’uomo e così perquisiscono la villa di Terrazzo dove viveva in via Torrano e il cascinale disabitato in via Brazzetto che frequenta. I documenti d’identità di due prostitute scomparse, Claudia Pulejo e Biljana Pavlovic, sono lì tra vecchi giornali, attrezzi abbandonati, cianfrusaglie. Stevanin non dà spiegazioni su quei documenti: come sono arrivati fin lì?
Un mosaico d’orrore si ricompone con i corpi che uno dopo l’altro vengono ritrovati sepolti nei campi vicino a casa dell’uomo. In tutto, almeno sei donne uccise. Una prima vittima non identificata viene smembrata dal serial killer in dieci pezzi tra il 1988 e il 1989 poi tocca nel 1993 a Roswita Adlassnig, prostituta austriaca mai ritrovata e così altre ragazze tutte sotto i trent’anni.
Le perizie
A processo la comunità scientifica si divide: gli psichiatri della difesa ritengono che i danni subiti dall’incidente stradale siano stati determinanti per portare Stevanin a uccidere mentre Fornari ritiene che le lesioni siano ormai assorbite e l’agire criminale dipenda da una ipo-affettività e dalla conseguenza di una disfunzione sessuale: «Sapeva quello che faceva – sottolinea lo psichiatra – dal primo all’ultimo minuto».
In effetti, i medici che osservano Stevanin evidenziano la piena capacità dell’uomo di progettare, simulare, manipolare e difendersi dalle contestazioni, senza perdere mai il controllo. In aula si presenta a cranio rasato perché i giudici possano notare l’importante cicatrice a testimonianza dell’intervento chirurgico al cervello. Alla fine Stevanin – dopo alterne sentenze - viene condannato all’ergastolo e rinchiuso in carcere. Quando uccideva e nascondeva i corpi era perfettamente lucido e consapevole, nella totale capacità di rendersi conto di quanto stava compiendo, omicidi realizzati con brutalità davvero senza uguali.
Ancora oggi è detenuto nella casa circondariale di Bollate, una struttura che permette processi riabilitativi con successo, dove negli anni ha conseguito il diploma di ragioneria. In diverse occasioni ha rilasciato delle interviste, affermando che «nonostante sia passato un bel po’ di tempo ci penso eccome alle ragazze decedute. Nei miei ricordi però quelle ragazze sono vive, ed è così che vorrei continuare a ricordarle. Dal momento che gli inquirenti dicono che ho commesso quei fatti - devo dire così poiché di quei fatti io non ho mai avuto il ricordo - è ovvio che mi debba sentire responsabile. Certo, se fossi stato cosciente quei fatti non sarebbero avvenuti». E a chi scrisse la sua monografia aggiunse: «Ti prego di farmi sapere quando uscirà il libro e quando andrai al Costanzo Show. Per la copertina, se ci sarà un mio primo piano, vedi almeno che la foto sia un po’ disturbata dal titolo».