La Stampa, 29 aprile 2022
Domenico Procacci e il tennis
D omenico Procacci, fondatore e anima di Fandango e regista della docuserie «Una Squadra», che racconta l’epopea della mitica squadra azzurra di Coppa Davis degli anni ’70, sostiene di essersi disintossicato dai tornei di tennis. Li giocava da quarta categoria «ma quell’inferno l’ho attraversato, ormai ne sono fuori da 587 giorni», spiega, con la precisione compulsiva degli ex ossessionati. Però, sempre nell’introduzione al volume Fandango libri che raccoglie le interviste su cui si è basata la serie, confessa che la prima volta che ha incontrato Corrado Barazzutti ha potuto accettare al volo un invito a scendere in campo perché « io ho SEMPRE la roba da tennis, lì in macchina, nel bagagliaio che a questo serve, no?».
Procacci, nelle cinque puntate che vedremo su Sky ha raccontato dieci anni della nostra vita attraverso le parole e i ricordi di Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, Pietrangeli: ne è uscito il racconto che si aspettava?
«Quando ho iniziato mi aspettavo di trovare un gruppo spaccato da forti conflittualità, fra Panatta e Barazzutti, fra Pietrangeli e la squadra che di fatto lo esonerò. La conflittualità c’è, anche dopo 45 anni, ma è anche un po’ romanzata da quattro grandissime personalità che in realtà si stimano molto, e si vogliono bene a modo loro anche se ci tengono a rimarcare le differenze».
C’è un episodio che lo racconta meglio di altri?
«L’unica volta che Panatta e Barazzutti giocarono insieme in doppio in Coppa, nel ’79 in Polonia. Bertolucci non c’era, il sostituto ideale era Zugarelli, più doppista, più simile a lui, ma Adriano volle Barazzutti: perché gli dava sicurezza. Diversi, certo, ma capaci di fare squadra quando bisognava vincere».
Adriano il divo, Corrado l’antieroe.
«Lo pensavo anch’io. In realtà Corrado è anche molto divertente, ironico, a microfoni spenti un autentico vulcano. Poi appena iniziavamo a registrare si zittiva. Fra tutti è quello che cambiava di più».
Pietrangeli è davvero una figura romanzesca.
«Nicola è un personaggio leggendario, ha vissuto da protagonista in un mondo meraviglioso, nel quale era possibile giocare la semifinale al Roland Garros, poi prendere un aereo per giocare un torneo di calcetto al suo circolo a Roma, e il giorno dopo tornare a Parigi per la finale. Ma in lui ancora si sente, vivo, il dolore per quello che considera un tradimento dei suoi ragazzi».
Cinque personaggi che avevano bisogno di un autore.
«E in costante, delicato equilibrio fra dramma shakespeariano e commedia all’Italiana»
Troviamo i ruoli?
«Adriano è Gassman. Bertolucci, Tognazzi. Zugarelli chiaramente Manfredi. Barazzutti lo vedo come lo Stefano Satta-Flores di «C’eravamo tanto amati» di Scola».
E Pietrangeli?
«Adolfo Celi. Anche per la somiglianza fisica. Panatta e Bertolucci poi sono stati campioni nello sport, ma resto convinto che l’Italia abbia peso una grande coppia comica».
Fintamente cattivi, come Totò e Peppino.
«Anche un po’ Sandra Mondaini e Raimondo Vianello».
Gli anni in cui è ambientata la serie non erano però troppo da ridere.
«È vero, e le contestazioni per la trasferta del ’76 nel Cile di Pinochet sono famose. Ma si parte dal 1970 per arrivare all’80 dell’ultima finale, a Praga, dove ci furono incidenti diplomatici, polemiche anche dure. Si parla anche delle altre tre finali. Spero di aver reso il contesto di quegli anni difficili ma anche pieni di cose, importanti. Attraverso Panatta è stato possibile far entrare anche il costume di quell’epoca».
Quante bugie hanno raccontato?
«Non tante. Mi hanno stupito soprattutto certe dimenticanze. Panatta e Bertolucci hanno giocato un match a Barcellona finito 12-10 al terzo set, vinto da Paolo: nessuno dei due sostiene di ricordarselo».
Serie e documentari sullo sport vanno moltissimo: è l’effetto nostalgia?
«Non credo, al massimo per una piccola fascia generazionale. Funzionano perché parlano di valori che valgono per tutti, e si basano su personaggi pazzeschi, come i nostri cinque. Io so poco o nulla di basket, ma per me è stato importante vedere «The Last dance». La voglia di vincere che animava Barazzutti, ad esempio, è straordinaria. Corrado bisognerebbe portarlo in giro e mostrarlo come esempio».
Cinque puntate sono state sufficienti?
«Avrei voluto intervistare Borg, Nastase… Ci sono episodi rimasti fuori come quello di Bertolucci che a Napoli «salva» Borg, letteralmente sequestrato dal tassista perché non ha contanti e pretende di pagare con la carta di credito… Per quello c’è il libro. All’inizio mi sembrava inutile, invece raccoglie le interviste una per una e regala cinque differenti punti di vista»
Il tennista Domenico Procacci ha fatto progressi?
«Ecco, va spiegato che girare un documentario sul tennis non migliora il livello di chi lo gira. Ma sento che accadrà, prima o poi».