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 2022  aprile 29 Venerdì calendario

Se quattro giorni (di lavoro) vi sembran pochi

 È mercoledì pomeriggio e Daiana Iacono risponde al telefono dal parco Sempione. Ha preso una delle due mezze giornate libere (in alternativa a una intera) che il passaggio alla settimana di quattro giorni le consente di fare. Dice: "Prima non ero mai potuta andare a prendere a scuola i miei figli. Ora ci sta quello e anche qualche bella passeggiata per me". Awin Italia, l’azienda di marketing digitale di cui è la manager, ha reso ufficiale il cambiamento da gennaio 2021, come nelle altre filiali internazionali, dopo un periodo di prova pandemico in cui aveva cominciato regalando ai dipendenti il venerdì pomeriggio. Gli affari non sono mai andati meglio, per non parlare dell’umore dei lavoratori.
Dovrebbe essere un’aritmetica piuttosto convincente quella che, nel loro caso, a un meno 20 per cento di ore lavorate fa corrispondere un più 10-15 per cento di risultati. E invece no. Restano una sparuta avanguardia, in uno dei pochi Paesi in cui il dibattito sullo scorciare la settimana lavorativa è praticamente assente. Sia nella politica che nel sindacato. L’Islanda ha già portato a termine con successo una sperimentazione, così come farà la Scozia. La Spagna ha annunciato una prova di tre anni. Il Giappone (che ha una parola, karoshi, per descrivere la morte per eccesso di lavoro) ci sta pensando seriamente, così come la Nuova Zelanda dov’è nata l’associazione 4 Days Week Global. E a metà febbraio i quattro giorni sono diventati legge in Belgio (a parità di ore, però). Intanto Mark Takano, deputato democratico della California, ha presentato il 32-Hour Workweek Act, un disegno di legge su cui il Congresso dovrà esprimersi. E se è pronta a discuterne una nazione in cui il workaholism è emergenza sociale quasi quanto l’alcolismo da cui deriva il nome, perché non dovremmo esserlo noi che negli anni 70 brillavamo nel firmamento giuslavoristico internazionale per Statuto dei lavoratori e altre conquiste?


Viva l’hydrobike 
Torniamo in zona Cadorna, nella sede meneghina della multinazionale tedesca Awin, specialista in performance marketing, per cui il cliente paga solo se l’utente digitale compra qualcosa e non semplicemente perché ha visto la pubblicità. È qui che Iacono ha convocato, eccezionalmente in presenza, un po’ di colleghi per l’intervista. Un’infilata di trentenni sorridenti nel raccontare il loro giorno in più. Norma Greco si dedica a un appartamento che ha riadattato a b&b, ha fatto l’abbonamento per l’hydrobike, pedalare sott’acqua, e fa weekend lunghi a Bardonecchia. Caterina Poppi ha imparato a cucinare, archiviato ogni alibi contro yoga e pilates e si è iscritta a un master ("Mi piace scrivere"). Diego Nebuloni si sarebbe buttato sulla pallacanestro, e invece deve limitarsi alla fisioterapia per recuperare un incidente ed è potuto "andare a vedere giocare l’Olimpia basket... alle 18!". Ah, ha anche aperto due enoteche con alcuni amici. In ogni caso, spiega, la nuova organizzazione ha messo a dieta stretta le riunioni ("Massimo 30 minuti") ma questo e altri aggiustamenti non hanno inciso nella resa, anzi: "Non mi pagano per le ore, ma per i clienti che porto: quello è il numero che conta e devo continuare a produrre". Ogni sei mesi, chiosa Iacono, fanno un sondaggio sulla soddisfazione dei clienti: "Sin qui tutto bene. Se qualcosa cambiasse siamo pronti a tornare indietro, ma non credo che avverrà. Sono tutti così "committati" (dall’inglese committed, coinvolti) in questo progetto che nessuno vuole rischiare che la pacchia finisca. I manager italiani tendono a non fidarsi dei propri dipendenti, ma credo che sbaglino. È una situazione win-win, vince il lavoratore ma anche l’azienda". Awin-Awin, addirittura, se non fosse una battutaccia.
Insomma, a giudicare da questo piccolo campione, qualcuno se la gode di più o semplicemente tira il fiato ma tanti hanno invece incanalato qualche energia residua su possibili piani B resi impraticabili dal full time. Quello dell’occasione per sprigionare creatività è uno degli argomenti forti di Pedro Gomes, economista portoghese al Birkbeck dell’università di Londra (ci studiò il giovane Marx) e autore di Friday Is the New Saturday, una specie di manifesto a favore della settimana breve. "Nella storia dell’economia molta innovazione è scaturita fuori dal posto di lavoro" dice in collegamento Zoom: "Henry Ford concepì da casa il motore delle sue auto. Steve Wozniack inventò il Mac nelle pause dal suo lavoro principale. Phil Knight ha concepito le Nike mentre aveva un altro negozio. J. K. Rowling ha creato Harry Potter in quel che restava dalle sue giornate tra vari lavoretti. È nel tempo libero mentale che le idee migliori vengono alla luce". 


Né di destra né di sinistra
Il suo libro, che arruola alla causa pensatori di sinistra come di destra, rappacificando Keynes con Hayek, squaderna otto argomenti in favore del cambiamento. Gli giro subito qualche obiezione standard che, in passato, hanno strangolato in culla il nostro dibattito: abbiamo una bassa produttività, come potremo permetterci di lavorare meno? "È vero il contrario! Con produttività si intendono due cose distinte: la quantità di output, beni o servizi, che un singolo lavoratore produce in un’ora ma anche il totale della produzione di un Paese. Nella prima accezione, se abbassate il denominatore (ore) il numeratore (prodotto) aumenta. E un lavoratore più riposato fa meno errori, riduce il turnover - che è un costo - si dà meno malato. Ma anche nella seconda accezione c’è un miglioramento. Perché la produttività di ristoranti, alberghi, cinema vuoti è bassissima. Se organizziamo la settimana allungando il weekend questi luoghi vedranno molti più clienti. Insomma, bisogna guardare all’economia nel suo complesso".
Non la mette in difficoltà neppure la nostra spaventosa percentuale di disoccupazione giovanile che fa dire allo scettico: "servono più ore, per questi ragazzi, non meno"? "Anche qui bisogna guardarsi dall’apparente buon senso, sollevando lo sguardo. L’industria del tempo libero, particolarmente rilevante da voi, impiega molto personale giovane o temporaneo: l’aumento dei consumi li favorirà indirettamente creando maggior domanda. Aggiungo un gran tema per l’Italia: quello della scarsa natalità. Con uomini e donne che lavorano non c’è tempo né per pensare né, sembra una sciocchezza ma non lo è, per praticare il sesso: un ribilanciamento di orari gioverebbe anche a quello". L’ultimo argomento è quello della riconciliazione di una società sempre più polarizzata: "Quando Roosevelt varò, col New Deal, la settimana di cinque giorni, l’America si sbarazzò del populismo per cinquant’anni. I  Trump e i Bolsonaro prosperano in un clima dove i diritti dei lavoratori fanno passi indietro invece di progredire".


Sindacato? Non pervenuto
Nessuno più di un sindacalista lo dovrebbe capire. Eppure, in altre faccende affaccendato, il segretario della Cgil Maurizio Landini non ha trovato una mezz’oretta per confrontarsi sul tema. Ha firmato però la prefazione a Lavorare meno, vivere meglio (Futura Editrice) di Fausto Durante, coordinatore della consulta industriale della stessa sigla, in cui elogia l’iniziativa editoriale restando però sul vago quanto a trasformare una generica aspirazione in una concreta rivendicazione. Raggiungo Durante per telefono e lo pungolo sulla renitenza della sua istituzione anche rispetto alle parole cristalline che Frances O’Grady, segretaria generale del Trades Union Congress, aveva avuto in occasione del centocinquantesimo anniversario: "Nel XIX secolo abbiamo lottato per le otto ore. Nel XX per il weekend di due giorni e le ferie pagate. Alziamo di nuovo l’ambizione e otterremo una settimana di quattro giorni, con una paga decente per tutti. È tempo di condividere la ricchezza creata dalle nuove tecnologie senza lasciare che se la prendano tutta quelli che stanno in alto". Durante concede che "è un obiettivo entrato nel cono d’ombra col neoliberismo, agli inizi degli anni 80. Quando i sindacati sono in difficoltà, difendono l’esistente. Più il valore del salario che la lunghezza della settimana. Ma è un errore: ogni volta che il sindacato è stato forte, ha ottenuto riduzioni dell’orario. In Francia la battaglia sulle 35 ore è vecchia di vent’anni. Tipicamente da noi ti mettono con le spalle al muro citando "la competitività del sistema" ma è un argomento che aveva senso, forse, prima della rivoluzione digitale. In mezzo ai robot, il modo di competere non passa dallo spremere la forza lavoro ma dal valorizzarla. Mentre se i guadagni dovuti all’intelligenza artificiale andranno solo ai manager rischiamo un nuovo luddismo". 
Quanto alla nostra scarsa produttività, "a lungo è cresciuta in tandem con la crescita dei salari, fino al 1980 (salari che in termini reali sono addirittura scesi dall’introduzione dell’euro). E un grosso ostacolo al suo recupero è piuttosto la struttura del capitalismo italiano, fatto di piccole e piccolissime imprese che non hanno le risorse per investire nell’innovazione di processo. Per questo se noi in 40 ore produciamo 10, i francesi in 35 ne producono 15". 


Germania batte Italia
A livello aziendale hanno fatto accordi per settimane più brevi alla Ducati e altrove, ma il problema è trasferirli a livello nazionale. Durante aggiunge che "la sinistra dal 1989 si è trovata orfana di punti di riferimento e ha pensato che bastasse temperare gli "spiriti animali" del capitalismo. Ma se non si sveglia non c’è da meravigliarsi che non la votino più. Lo stesso vale per noi: quand’ero responsabile internazionale della Fiom e incontravo i miei colleghi le prime domande erano "quanti soldi prendi e quante ore lavori". Su queste basi si fonda militanza e appartenenza. Da noi si lavora di più e si guadagna meno: è il momento di tornare ai fondamentali". Già. 
Nel Pd l’unico che abbia citato il tema come se si trattasse di qualcosa di importante fu, nel 2019, Peppe Provenzano nel libro La sinistra e la scintilla. Poi è diventato ministro, quindi vice segretario del partito e da allora non è più tornato sull’argomento. "L’ultima volta che un politico italiano l’ha posto sul serio è stato quando Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana, ha presentato un progetto di legge cui avevo collaborato" rivendica Domenico De Masi, decano dei sociologi del lavoro nel salotto della sua casa che guarda sui tetti di Roma "E non è mai neppure arrivato in commissione. È un dibattito segnato negativamente dal tentativo del ’97 di Bertinotti sulle 35 ore, che provocò addirittura una spaccatura con Cofferati". Pizza, mandolino e fuoco amico. D’altronde se c’è uno che aveva intuito il potenziale produttivo del tempo non lavorato è proprio De Masi che nel ’75 dedicò un libro all’ozio creativo, inteso come quella zona di confine tra studio, lavoro e svago che col passaggio dalla manifattura ai servizi avrebbe dovuto assumere uno statuto più rispettabile. L’umanità, riassume, ha sempre cercato di produrre più ricchezza con meno lavoro. E ora che l’intelligenza artificiale sostituirà parte delle occupazioni dei colletti bianchi, è il momento ideale per dividere i lavori che restano tra più persone sforbiciando la settimana. 
Anche con la nostra produttività, chiedo come se non avessi capito la lezione di Gomes? "Certo che sì. La Germania lavora 1.400 ore all’anno e produce il 20 per cento più di noi che ne lavoriamo 1.800. Non solo: ha il 79 per cento di occupati contro il nostro 58,7 (aumentato di poco di più di un punto in quasi vent’anni: segno che le politiche attive, Jobs Act e cancellazione dell’articolo 18 non han funzionato). Che cosa vuol dire? Che le ore non sono il problema, ma possono essere la soluzione. Nel senso che, scorciando la settimana, potremmo riassorbire i nostri disoccupati. E, sul versante aziendale, vuol dire anche un’altra cosa: che se lavoriamo di più dei tedeschi e produciamo meno, la colpa è dei manager. Una volta eravamo famosi per le nostre scuole di formazione, dal Formez di Olivetti all’Ifap dell’Iri. Poi abbiamo deciso di abolirle perché costavano troppo. E questo è il risultato". Che riecheggia la fulminante battuta di Derek Bok, rettore di Harvard, riguardo i costi delle rette: "Se pensate che l’istruzione sia cara, provate con l’ignoranza".


I secondi preziosi di Bezos
A proposito di America, lì la pandemia ha smosso faglie lavorative profonde generando uno sciame sismico di conseguenze, dalle "Grandi dimissioni" di milioni di lavoratori in crisi di identità alla "scandalosa" entrata del sindacato da Amazon e Starbucks, ultimi fortini espugnati. La giornalista Sarah Jaffe è una cronista attenta di quel fronte caldo, nonché l’autrice di Il lavoro non ti ama (minimum fax) che decostruisce il ricatto per cui tante occupazioni, soprattutto intellettuali, pagano salari da fame contando sul fringe benefit della passione nei confronti di quell’attività. Se, come Naomi Klein ha insegnato in Shock Doctrine, non c’è niente di meglio di una crisi per cambiare (in peggio) lo status quo, forse non è il momento più giusto per spingere per la settimana corta? "È sempre il momento giusto" dice in video da New Orleans, "tanto più dopo i traumi che i lavoratori essenziali, tra cui la logistica, hanno subìto in questi anni. Per noi che lavoravamo da casa, il Covid è stato duro ma non abbiamo rischiato di ammalarci (e morire) sul lavoro. A maggior ragione per loro è arrivato il momento di respirare. E, come ci insegna la scienziata politica Alyssa Battistoni, il modo in cui produciamo sta uccidendo il Pianeta: la settimana corta va nella giusta direzione anche ambientale". Anni fa, ospite del festival di Internazionale a Ferrara, si era prima sorpresa che molti negozi chiudessero dopo pranzo per subito rallegrarsene ("Questa è civiltà!"). E tra i cambiamenti poco mediatici, ma sostanziali, aggiunge la nomina da parte di Joe Biden di Jennifer Abruzzo alla National Labor Relations Board: "Lei non può decidere di ridurre i giorni a quattro, per quello ci vuole il Congresso, ma può far sì che gli straordinari vengano pagati. E non è un cambiamento da poco".
Cita anche lo slogan di Unite Here, un sindacato che rappresenta 300 mila lavoratori tra Canada e Stati uniti, che recita: "One job should be enough", un lavoro dovrebbe essere abbastanza. Per vivere decentemente. Così semplice e così radicale, che richiama anche il bisogno di avere del tempo libero per sé. Proprio quello che l’infinito patchwork dei lavoretti ci ha precluso. Nel vasto repertorio dei fattoidi a tema, torna alla mente quello su quanto Jeff  Bezos guadagna al secondo (2.537 dollari, a ottobre scorso), pari a oltre otto settimane di fatica di un suo magazziniere. Magari, ridistribuendo meglio le ricchezze, abbuonare a quest’ultimo otto ore alla settimana non dovrebbe risultare impossibile.