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 2022  aprile 29 Venerdì calendario

Biografia di Giorgia Soleri raccontata da lei stessa

«Sì, mi preoccupa che le persone leggano le mie poesie per intrufolarsi nella mia relazione con Damiano, e non per quello che scrivo. Ma qui non c’è solo lui. Quella che può sembrare una poesia d’amore magari è dedicata a un amico. Ci sono versi sul suicidio di un’amica e sull’aborto; su una relazione tossica di tempo fa: “Le coltellate che mi dai sono io a chiederle”. Sono responsabile di quello che ho scritto, non di quello che gli altri ci vogliono leggere». Occhi come spilli e tuta rosa da pomeriggio casalingo, Giorgia Soleri racconta il suo esordio in libreria con La signorina Nessuno (Vallardi), libro di poesie che esce il 5 maggio e su cui è già alta la curiosità. Perché lei, 25 anni, modella e attivista milanese sradicata a Roma per amore, per il vario mondo è “la fidanzata di Damiano dei Måneskin”.
C’è anche lui naturalmente, in questi versi: “Componimi come fai con le canzoni”, scrive Giorgia, in questo collage di versi e illustrazioni attraversato da un implacabile dolore. Soleri mette da tempo in gioco la sua visibilità su Instagram e altri social per fare campagna sulla vulvodinia e l’endometriosi; patologie terribili, specie la prima, che «colpiscono una donna su sette, e di cui non si parla mai. Io e Damiano abbiamo discusso a lungo di questa cosa e da artisti abbiamo fatto una specie di patto di sangue: nessuno dei due metterà mai all’altro alcun limite di espressione».
Chi è la “signorina Nessuno” del titolo?
«È nata nel 2018, quando vivevo la relazione con Damiano in maniera privata. Poi è diventata un modo per distanziarmi dalle esperienze vissute e vederle con più profondità».
Perché proprio la poesia?
«Spero che questo libro possa far capire, specie al pubblico più giovane, che la poesia non è una cosa elitaria o noiosa. Ho iniziato a scrivere in quinta elementare; alle medie non sono stata una studentessa modello ma ho avuto una professoressa di italiano che mi ha presa a cuore. Voleva leggere le mie poesie e io gliele ho portate, tutte, in una di quelle cartelline trasparenti».
Le sono piaciute?
«Tanto. E le ha fatte leggere anche a una sua collega. Qualche giorno dopo il manoscritto mi è tornato con sopra i voti di questa collega. Io volevo solo condividerle. Ci sono rimasta male e per un po’ non ho scritto niente».
Cosa l’ha spinta a riprendere?
«Mia mamma. Mi ha convinta a mandare una poesia a un concorso del paesino dove vivevamo, sono arrivata prima. Tempo dopo, mi ha detto: sai che anch’io scrivevo poesie? Conserva un mucchio di quaderni in cantina. Ma non le ha mai fatte leggere a nessuno».
Un’ immagine ricorrente nelle poesie sono le fiamme. E il contatto tra il corpo e la natura. Senza la malattia avrebbe scritto lo stesso?
«Non tutte le mie poesie parlano di dolore fisico, anzi. Scrivo della malattia perché non posso pensare che tutto quel dolore sia inutile. Nelle crisi è come se il mio corpo non avesse più contorni. Mettendolo nero su bianco è come se lo costringessi a restare umano: stai lì, nei confini del corpo, così ti posso sopportare».
Lei ha rivelato di dover ricorrere a oppiacei per tenere a bada il dolore: quanto condiziona una relazione di coppia?
«Qui entrano in gioco i costrutti sociali legati ai ruoli di genere. Le ragazze crescono con l’imposizione del ruolo di cura: a nessuno sembra strano se una donna sta con un uomo che ha un problema legato alla sessualità. Ma il contrario? Damiano sta facendo un percorso esemplare, decostruendo i ruoli di genere: la cura spetta a chi ha la forza di curare l’altra persona. Per me è la base dell’amore».
E il desiderio?
«Ho iniziato a vivere la mia sessualità quasi in parallelo con l’inizio del dolore. La prima volta a 16 anni, in vacanza col mio fidanzatino dell’epoca. Pensavo di avere la famosa cistite da luna di miele, quando si hanno magari troppi rapporti ravvicinati, invece era un primo sintomo della vulvodinia. Non voglio fare la femminista guastafeste che purtroppo sono, ma alle donne viene insegnato che conta di più soddisfare il desiderio dell’altro. Penso che la malattia sia stata per me un modo per imparare a rispettare il mio desiderio che non significa non considerare l’altro. Mi ha fatto scoprire un tipo di sessualità meno fallocentrica. I cosiddetti “preliminari” possono diventare modi diversi di fare sesso e darsi piacere».
Cosa può fare la società?
«Tanto. Più soldi nella ricerca, più formazione. E poi bisognerebbe fare un discorso su come la società percepisce il dolore cronico: in una cultura iper produttiva, non ci è concesso avere difetti. Pretendere il riposo è diventato un gesto rivoluzionario».
E usare i social?
«Per me servono a creare spazi. E possibilità. Nei periodi di dolore acuto non ho la forza di partecipare a un corteo; i social mi permettono di amplificare la mia voce in ogni caso. È stato bello scoprirne la potenza quando si sono create comunità con le mie stesse malattie».
Solo aspetti positivi?
«Sarei ipocrita a dire che non mi aspettavo le cattiverie quando ho ufficializzato la mia relazione. Non mi aspettavo però che mi accusassero di speculare sulla malattia. C’è bisogno di dire quanto farei volentieri a meno di mettere la mia privacy sotto gli occhi di tutti, dire che mi fa male la vulva? Nessun rimpianto però, sono felice del libro e di quello che ho fatto».