la Repubblica, 29 aprile 2022
Filippo Ceccarelli è stato su Instagram
Tentare un grande ritratto, anzi autoritratto degli italiani attraverso Instagram, che dei social è il più espressivo, il più pittorico. Farlo nella maniera più compromettente, immergendosi per un paio d’anni in quella folla enorme e chiassosa con curiosità totale e zero remore culturali o anagrafiche. Accumulare appunti con passione enciclopedica. Restituire il tutto in un libro poderoso, densissimo, esilarante e insieme compassionevole, una specie di monumento di carta dedicato all’infosfera digitale che della carta non sa che farsene, perché «là dentro tutto evapora», tutto dura niente, mentre ogni libro di carta, al contrario, trattiene, imprigiona, consegna alla memoria.
L’impresa non poteva essere tentata che da Filippo Ceccarelli, il più curioso e il più metodico dei giornalisti italiani, raccoglitore seriale di parole, tracce, posture sociali, facce. Un archivista accanito che decide di addentrarsi in un mondo in cui «non è consentita alcuna forma di archivio», la giungla social che non tiene conto di passato e futuro e scintilla di solo presente: a partire dal nome è una somma di soli istanti (Instagram…). E tenta di trovare un significato, perfino una direzione in quei materiali scomposti e volatili.
Come ogni bravo esploratore, Ceccarelli è partito per la sua spedizione, così spaesante, dandosi un obiettivo «scientifico » che lo aiutasse a non smarrirsi: verificare quanto, negli italiani di Instagram, sia precedente ai social, una identità nazionale profonda e immutabile che il mezzo ha solo portato in piena luce, spietatamente; e quanto pesi invece la famosa «mutazione antropologica», così vorticosamente accelerata nei tempi e nei modi da quando Pasolini forgiò il concetto.
Non essendo un thriller, si può tranquillamente anticipare l’esito: gli italiani di Instagram, secondo l’autore, sono gli italiani di sempre, anche se la vecchia «magnata» che esorcizza la fame adesso si chiama mukbang, anche se a comperare la casa alla mamma che fa le pulizie nelle case dei signori non è il bravo figliolo, ma il «diavolaccio trapper» apparentemente feroce.
Detto questo, però, del libro non si è detto quasi niente. Perché è il viaggio in sé che merita la lettura (non tutto in una volta, si rischia di soccombere alla quantità e di perdere la qualità), grazie a una capacità di osservazione, di catalogazione e di analisi che fa di Lì dentro. Gli italiani nei social un compendio formidabile di ciò che siamo, o meglio diciamo di essere, nella nostra vetrinetta sul web. Certo «il miraggio di essere il creatore di se stesso» – come Instagram promette e consente – ha un suo peso: dilata il narcisismo e la vanità, annulla le sfumature e le penombre, esalta quella «oscenità del troppo visibile» così ben definita da Jean Baudrillard (che, come le tante citazioni colte di questo libro, è così pertinente da non sembrare mai messa in pagina solo per sfoggio).
Ma la capacità di Ceccarelli è attribuire quasi ad ogni quisquilia, sbracatura, orrore, una sorta di radice nazionale, trovandone le tracce (da bravo archivista) in precedenti parole analogiche, e fatti di cronaca, e testimonianze scritte. Così la volgarità indicibile, l’ingordigia ostentata, l’astio sbracato, risultano già ben sedimentati nella nostra storia sociale, nel nostro costume e nelle precedenti generazioni, tanto quanto i buoni sentimenti e addirittura certe accensioni spirituali. E il truce sfoggio gastronomico del vice- influencer che si ingozza di porcherie rimanda all’Alberto Sordi dell’Americano a Roma, in visibilio davanti alla sua cofana di pasta.
Così rispettoso dei suoi reperti social, e direi così affettuoso nei confronti dei suoi autori, Ceccarelli riesce però – non so quanto coscientemente – a darci la misura della vera grande differenza tra il “prima” e il “dopo” mano a mano che fornisce al lettore, pagina dopo pagina, l’ascissa mancante: il tempo che passa, e passa comunque, e passa per tutti. Lo fa con un espediente narrativo semplice e, se posso dire, emozionante. Nel viaggio lo accompagnano passo dopo passo il figlio Giacomo, in vigile presenza (ha il compito di evitare al papà neofita gli abbagli e le sbornie da full immersion in un mondo a lui sconosciuto) e il padre Luigi, che non c’è più ma gravita ovunque. Da lui Filippo ha ereditato l’inesausta curiosità verso gli umani, nonché la vocazione all’accumulo di carte, memorie, parole d’epoca. Nell’ultimo capitolo del libro, come un vero e proprio colpo di scena, riemergono, da un baule dimenticato, faldoni e carteggi del padre. Con parecchie risonanze con l’oggi. La cognizione del tempo, dunque, è il “di più” (un decisivo “di più”) che questo libro suggerisce, sia pure con ammirevole pudore, al lettore travolto dalle risate ed estenuato dall’orrore. Conta relativamente sapere se i social abbiano reso gli italiani più o meno mascalzoni, più o meno fantasiosi, più o meno simpatici. La vera domanda è se si possa vivere di solo presente, e se la fine della memoria non sia anche la fine della cultura come l’abbiamo sempre conosciuta: un procedere, non uno stagnare. Un ragionare, non un contemplarsi.