La Stampa, 28 aprile 2022
Il revival delle armi
Armi, guerrieri, eroismi, sacrifici supremi, battaglie: se ne parla molto, comincio a temere troppo. Non è certo illecito che si chieda agli uomini, quando devono rispondere a un sopruso, a una criminale invasione, di combattere ed essere eroi visto che questo è un modo necessario, l’unico rimasto per indurre al bene della Causa, motivazioni che rientrano nel loro vissuto, da cui sorgono gli atti di volontà. Uno dei mezzi più adeguati per combattere la passività davanti ai prevaricatori è da sempre predicare l’obbligo morale di essere coraggiosi, di battersi con le armi in pugno. Eppure ho l’impressione che si stia andando pericolosamente oltre e che si stiano ponendo le basi per una ennesima ebbrezza militarista, che possa riemergere la seduzione della guerra soprattutto tra le generazioni più giovani. E che si stia per entrare, se già non ci siamo dentro, nel periodo della ossificazione dell’intelligenza.
Mi par di intravedere un pianificato sfruttamento, anche in paesi di sicura fede democratica, da parte delle classi dirigenti di alcune forme di esaltazione collettiva. Ci si prepara a un mondo raggelato da mobilitazioni permanenti tra i Blocchi per cui, come negli anni Cinquanta, sono necessari metodo e sistemi psicologici, propagandistici, culturali di mobilitazione e di inquadramento: ovvero quel complesso di norme e di prassi che costituiscono il fondo vero, non coreografico, del militarismo, della ideologia guerrafondaia. Che sarebbe la colpa (e non la minore) dell’aggressore Putin. Ma anche un favore indiretto che gli avremmo reso. Rendendoci simili a lui.
Esemplifichiamo e poniamo socratiche, umili domande. Non trovate che si parli ossessivamente di armi, le nostre, le loro? Il morale dei russi viene rinfrancato con il lancio del missile che nessuno può intercettare in grado di partorire alla fine della sua gestazione volante decine di atomiche. Siamo nella norma della propaganda interna imperiale. Ma noi non siamo da meno: armi armi armi come ha mirabilmente sintetizzato il ministro ucraino. Quello ormai conta: l’antimissile perfetto, il siluro navale a cui nessuna corazza può resistere, i nostri caccia più da top gun della vecchia cianfrusaglia russa, si confrontano i carri armati come una volta si confrontavano i pregi delle auto da corsa.
L’industria occidentale fino a ieri si sfidava sui robot, l’intelligenza artificiale, congegni per ridurre la fatica dell’ uomo, addirittura cancellarla, per guarire, per rendere le comunicazioni ancora più rapide e sicure. Oggi si esibiscono sofisticate “eccellenze” per uccidere, come quelle prodotte dal signor Krupp che, al tempo del Kaiser, aveva affisso negli stabilimenti il General-Regulativ, un ordine interno da guerra permanente: «...come nell’esercito tutti marciano assieme contro il nemico, così in questi opifici saranno tutti uniti come in un sol uomo allorchè sia giunto il tempo di battere la concorrenza...».
Già, la concorrenza. Si tirano fuori con orgoglio cataloghi che un tempo si esibivano come se fossero pubblicazioni pornografiche: ecco qua i nostri cannoni sparano più lontano, le nostre mine sono più subdole e crudeli, i missili sbriciolano anche i bunker.
I droni che bisognerebbe da tempo aver proibito come armi illecite e criminali perché rendono la guerra più facile e a rischio zero, sono diventati la nuova frontiera scientifica dell’umanità. Tutti producono, tutti comprano, in Ucraina tutti usano.
Pensavamo, come occidentali, di aver perso colpi in quella straordinaria creatività scientifica che è la storia dell’occidente, e anche l’origine del suo potere mondiale. Ci rassicuriamo, nell’ammazzare siamo sempre un palmo avanti. L’industria bellica la cui sopravvivenza si giustificava un po’ a mezza voce, con espediente ipocrita, citando la percentuale sempre alta offerta al totem del prodotto interno lordo, adesso diventa vanto, necessità, sicurezza nazionale. Chi continua a discuterla rischierà tra poco l’accusa di sabotaggio. Si esaltano le qualità delle armi offerte agli ucraini che non sfigurano con quelle di altri benefattori più importanti: la qualità italiana. Si rischia di rimpiangere i bei tempi, anche recentissimi, in cui assolvevamo il nostro debito morale con aggrediti più periferici fornendo quattro catenacci e approfittando per arieggiare i locali degli arsenali.
Non sarebbe nulla questo revival industrial-guerriero che arrotonda bilanci ahimè mai in rosso se non si accompagnasse a qualcosa di più perfido, il riapparire della Vecchia Menzogna, il rigurgito di disgustose sciocchezze, di seduzioni che sembravano sepolte in destre residuali. Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. È un errore fatale.
Lo dico ascoltando interviste ai cosiddetti combattenti delle brigate internazionali, che combattono e purtroppo muoiono con gli ucraini. Di quelli che sono a fianco dei russi immagino darà altrettanto ampia e interessata testimonianza la propaganda dell’altra parte.
Nell’enunciazione di concetti primitivi, l’onore, il dovere riaffiora soprattutto una perfida tradizione irrazionalistica, uno sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo: con la voluttà dell’essere eroe, il culto della morale guerresca, il vivo foco della lotta, e altri intrugli che infiammano i piccoli ribellismi borghesi di ogni tempo.
La droga della guerra funziona purtroppo ben al di là dell’ alchimia di volenterosi apprendisti stregoni. Guardate i russi, la loro guerra feroce. Ci vuole niente a entrare nell’oppiaceo regno del nichilismo attivistico, dove i legionari scrivevano «viva la muerte» sui muri dei villaggi occupati di Andalusia; dove nessuno parla più di pace per non essere accusato di essere un vigliacco o un disfattista, la vita è un continuo duello, una vita all’insegna del lupo. E la guerra, se ci coinvolge direttamente, in fondo è il proseguimento di un ordine originario, eterno.