Corriere della Sera, 28 aprile 2022
Biografia di Ilaria Capua raccontata da lei stessa
Ilaria Capua, scrittrice, fondatrice del centro multidisciplinare One Health dell’Università della Florida, veterinaria e virologa, ex onorevole, ex direttrice di dipartimento dell’Istituto zooprofilattico delle Venezie dove con il suo team ha isolato per prima al mondo il ceppo africano dell’aviaria H5N1 e lo ha messo in un database pubblico scuotendo i dogmi scientifici (oggi la chiamiamo Open Science), inizia una nuova era...
«Possiamo anche vedere la storia come i periodi tra una pandemia e l’altra. Io li chiamo periodi inter-pandemici. E sono preziosi: è ora che dobbiamo mettere a posto le disuguaglianze, l’accessibilità ai vaccini».
La testa delle persone... no io intendevo che entriamo in una nuova era per lei. È tornata a vivere in Italia da pochi giorni, a Roma, per un «anno sabbatico» dopo che l’Italia l’aveva costretta alla fuga proprio da quella casa dove aveva vissuto da parlamentare...
«Sì, la stessa casa, ma ho ristrutturato tutto, qui le pareti erano intrise di lacrime per quello che ho dovuto subire. È uno snodo, ce ne sono di continuo nella vita. Quello che vorrei fare è scritto nella Meraviglia e la trasformazione (uno dei suoi libri, Ndr): non possiamo fare la stessa vita, gli stessi sbagli di prima e bisogna pensarci. Voglio prendermi del tempo per pensare e riflettere sui cambiamenti che sono già avvenuti, per tutti: anche il lavoro sarà diverso, tutto sarà diverso, anzi è già diverso. Siamo in una realtà post-pandemica obtorto collo».
A caldo: meglio la Florida o la Grande bellezza?
«Roma è la Grande bellezza, ma che peccato questo disinteresse diffuso: sotto casa mia lasciano le bottiglie di birra vuote sugli scalini. Le raccolgo io. Che devo fare?».
A proposito di Grande bellezza: lo sa che a Roma gli onorevoli non sono mai ex? Continuano a chiamarli onorevoli...
«Basta politica».
Non tornerebbe mai?
«Non fa per me. Non sono tagliata per quella vita: ero piena di buoni propositi».
Quando la chiamò Mario Monti lo conosceva già?
«Monti mi chiamò il 6 gennaio, il giorno della Befana, non lo conoscevo. Mi disse sto mettendo insieme questa lista e sto cercando una persona con un profilo internazionale. Io risposi: guardi che io non ci ho mai pensato. Quanto tempo ho per decidere? Mi disse 24 ore. Mio marito che è scozzese mi disse: quando ti ricapita che una persona credibile come Mario Monti ti cerchi per un incarico cosi?».
Pensa che l’abbiano attaccata per il suo ingresso in politica?
«Aveva già dato fastidio il mio progetto di ampliare e spostare l’Istituto zooprofilattico delle Venezie. Avevo già allora dei nemici. Sono troppo ingombrante: non so stare nella casella standard».
Non ci ripenserebbe nemmeno se la chiamassero al governo? Tanti anni fa, in occasione della presentazione del libro «I virus non aspettano» (titolo profetico) le chiesi cosa avrebbe fatto se l’avessero chiamata a fare il ministro della Salute...
«Grazie, proprio non mi interessa».
Non insisto. Nel frattempo chiamano al telefono: è Amazon...
«Ho comprato tutto su Amazon e comunque online: frigorifero, piatti, bicchieri. Sono dell’idea che non c’è tempo da perdere. La nostra generazione è caricata da una quantità di cose da fare enorme: email, video-call, accompagna, riporta, spostati, vola di qua e di là. Non abbiamo tempo: per arredare questa casa mi ci sarebbe voluto un mese. Sono diventata online-addicted in America perché le distanze sono enormi: negli Usa non avevo abbastanza vita davanti per andare a comprare l’aglio fresco (40 minuti da casa) e così ho comprato anche quello online. Siamo in un momento fluido e dobbiamo gestirlo anche rispetto all’ambiente: è il momento dell’ottimizzazione ma bisogna farlo in maniera efficiente, non possiamo far finta di girare alla stessa velocità di prima. È la stessa cosa che dobbiamo fare come società: dobbiamo mettere a posto i dati perché quello che abbiamo vissuto è l’evento più misurato della storia. Io credo che i 40-60 enni con le spalle larghe abbiano l’obbligo di soffermarsi a pensare sui cambiamenti che la pandemia ha portato sulla società. Lo si sapeva che dopo ogni pandemia c’è una regressione sociale, psicologica e culturale: dopo l’influenza spagnola fecero uno studio. Scelsero la Norvegia perché era stata neutrale nella Prima guerra mondiale. Risultarono aumentati di sette volte i ricoveri con diagnosi per problemi legati alla salute mentale. Nel 1920, figuriamoci adesso. Ci vorranno per forza dei “transition manager della pandemia” per gestire i cambiamenti che verranno».
Visto che siamo in un periodo inter-pandemico: la prima cosa che dirà nella prossima?
«Che adesso siamo messi molto meglio perché sappiamo cosa fare, almeno nel mondo occidentale dove c’è libertà. Questa sventolata ce la ricorderemo a lungo: apparteniamo al regno animale, lo dovremmo aver imparato. I sei mesi di stupore che ho descritto nel libro – quando si pensava che il virus sarebbe andato via da solo, piuttosto che bastasse la tachipirina – non li vivremo più. Ci metteremo subito la mascherina da soli senza che ce lo dicano dai governi».
Tranne i no-mask, beninteso. A proposito l’ho chiamata veterinaria e virologa. Durante questi due anni in cui ha contribuito a spiegare a noi italiani, spesso dalla Florida, cosa fare hanno contestato anche la seconda definizione: virologa. Nonostante il successo nell’isolare la sequenza genetica del ceppo nigeriano dell’aviaria e il contrappasso che sia stata accusata proprio di «traffico di virus». È assurdo. Avrà contribuito il fatto che era una delle poche donne?
«Grazie della domanda perché mi permette anche di spiegare come mai all’inizio della pandemia ho deciso di rimettermi il “camice”, l’ultima cosa che avrei voluto fare dopo l’esposizione italiana sui virus. A un certo punto, pur non seguendo la televisione italiana, avevo capito che regnava una confusione sovrana e, specialmente all’inizio, vi erano solo posizioni polarizzanti. Ho pensato che partecipare fosse un mio dovere nei confronti del Paese che mi ha fatto studiare e mi ha dato la possibilità di sviluppare il centro delle Venezie che ha raccolto a suo tempo dei successi incredibili (eravamo partiti in 4 per diventare 70 e attirare decine di milioni di euro in progetti). E l’ho fatto con quello che è il mio stile: spiegare senza nascondere. Normalizzare il problema. E ho sempre usato toni rispettosi degli altri. Peccato che vivendo in un altro fuso orario, quando gli altri parlano mentre magari tu stai dormendo, quello che ti arriva sono i cazzotti sullo stomaco che mettono in dubbio la tua competenza. Ho avuto un paio di “tweet shit storm” antipatici: come donna ti prendi di default anche insulti a sfondo sessuale, ma mai avrei immaginato di prendere insulti a sfondo veterinario... io sono grata della mia formazione di medico veterinario e ho fatto la specializzazione e il dottorato in sanità pubblica. Dirigo un centro One Health in Florida. Perché insultarmi per aver preso quella laurea che mi ha portato fino a qui?».
Non si vuole levare qualche sassolino dalle scarpe?
«Anche no».
Bastava leggere «Spillover» per sapere che il virus viene da un salto di specie, che è sostanzialmente un argomento da virologo veterinario. È per questo che poi è un po’ scomparsa dagli schermi?
«No, sono scomparsa negli ultimi mesi perché secondo me non c’era più niente da dire in questa situazione. Bisogna avere il buon senso di non inquinare il dibattito per visibilità propria, di proposito, anche perché ora la malattia è endemica e io studio i virus emergenti. Dunque cercherò di capire il prossimo che arriverà. Il Covid sarà pane per i denti degli infettivologi ospedalieri che avranno a che farci per un bel po’».
Lei ha attraversato una dura vicenda giudiziaria, era accusata di reati punibili con l’ergastolo. Pentita di essere italiana?
«Ci si può pentire di essere italiani? Non credo. Diciamo che ancora non mi capacito dell’assurdità totale delle cose che hanno circondato la mia vita in quegli anni e trovo che sia molto ben rappresentata nel film “Trafficante di virus”, della regista Costanza Quatriglio (liberamente ispirato al libro omonimo della Capua, ndr) e interpretato da Anna Foglietta. Sono andata negli Stati Uniti perché dovevo rinascere via dall’Italia. Sono andata via imputata (e non indagata) di reati punibili con ergastolo e con la reputazione completamente distrutta anche a livello internazionale. Ma in Florida ho ricominciato e accettato di lavorare su un centro interdisciplinare e lì ho costruito il paradigma di Salute circolare che oggi è diventato un punto di riferimento internazionale, non solo per l’Università della Florida».
Ci sarà abituata. Quando decise di mettere in un database pubblico la sequenza dell’H5N1 non rispettò i protocolli e la chiamarono anche dalle Nazioni Unite, dall’ufficio di Kofi Annan. Ora tutti seguono quella procedura. È accaduto anche con il Covid-19.
«Diciamo che sarebbe successo lo stesso. Ma lo abbiamo fatto in 15 anni. Magari ci sarebbe voluto un secolo per convincere i più conservatori in condizioni diverse».
La lezione della pandemia?
«Il virus fa il virus, le pandemie le fanno gli uomini, con i comportamenti, con la demografia ma anche attraverso i social con i consigli sbagliati, i dibattiti folli e le fake news».
A proposito di fake o non fake news. Il virus viene da un laboratorio cinese di Wuhan?
«Non abbiamo trovato la “mutazione fumante”».