Corriere della Sera, 28 aprile 2022
Due commenti sulla riforma della giustizia
Sabino Cassese, Corriere della Sera
La riforma della giustizia è un grande e operoso cantiere. Alcune parti dell’edificio sono completate, altre in via di realizzazione, altre solo disegnate. Il percorso è lungo (i mali della giustizia sono molti e gravi), ma la direzione è quella giusta. I cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti, ripetizione moderna dei guelfi e dei ghibellini, continuano a strillare in direzioni opposte.
Invece governo e Parlamento procedono con passo spedito, in alcuni passaggi importanti senza neppure ricorrere alla questione di fiducia (così martedì alla Camera), tanto da ottenere il plauso della presidente della Commissione europea, che una decina di giorni fa ha manifestato il suo apprezzamento al governo italiano per la semplificazione delle procedure giudiziarie, la riduzione dell’arretrato e l’aumento della efficienza delle corti italiane.
Il cantiere è tanto vasto che è persino difficile abbracciare tutte le riforme realizzate, avviate e progettate. La prima è già consacrata in leggi di delega del settembre e del novembre dell’anno scorso e mira alla riduzione del 90 per cento dell’enorme arretrato di processi, del 40 per cento della durata dei processi civili e del 25 per cento di quelli penali. Oggi i processi pendenti sono circa 6 milioni; i tempi per esaurire i tre livelli di giudizio delle procedure civili sono superiori a 7 anni e quelli delle procedure penali superiori a 3. I decreti delegati sono in dirittura d’arrivo e assicurano speditezza e razionalizzazione dei due tipi di processo. Oltre alle riforme delle procedure, cospicui sono gli interventi sull’organizzazione, partendo dall’edilizia giudiziaria, passando all’assunzione di migliaia di assistenti giudiziari, personale amministrativo, operatori giudiziari e di magistrati, regolarizzando la posizione dei magistrati onorari, prevedendo piani gestionali (non basta scrivere la sentenza giusta, bisogna anche che la giustizia sia efficiente), digitalizzando le procedure, prevedendo altri modi di soluzione delle controversie, semplificando e quindi riducendo i tempi, affrontando specificamente singoli capitoli dei due processi (per quello civile, il diritto di famiglia, la crisi d’impresa; per la giustizia penale l’esecuzione penale esterna, le misure alternative, la giustizia riparativa). Alla fine, i due tipi di processi, quello penale e quello civile, saranno riformati e si può sperare che l’arretrato venga rapidamente portato al minimo e i tempi ridotti.
L’altro capitolo dell’azione riformatrice del governo riguarda la presunzione di innocenza. Un decreto delegato del dicembre scorso limita fortemente la spettacolarizzazione delle indagini con la diffusione delle informazioni riguardanti i procedimenti penali e le esternazioni su indagini in corso, additando come colpevoli le persone che sono soltanto indagate. La diffusione di notizie è ora possibile solo in quanto strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o per specifiche ragioni di interesse pubblico.
Il terzo capitolo — questo «in itinere» perché, appena approvato dalla Camera dei deputati, deve essere ancora approvato dal Senato — riguarda il Csm e i rapporti tra giustizia e politica. Per evitare spartizioni tra correnti, le candidature al Csm possono essere presentate anche individualmente e le nomine ai vertici degli uffici giudiziari vanno fatte una per una, in ordine cronologico, dopo l’audizione delle persone selezionate, non a pacchetto. Il fascicolo personale di ogni magistrato viene arricchito, in modo che il Csm possa valutare la professionalità sulla base di elementi oggettivi. Vengono fissati limiti alle cosiddette porte girevoli, cioè al passaggio dei magistrati nella politica. Non più magistrati che assumono incarichi elettivi o amministrativi mentre svolgono la loro funzione nell’ordine giudiziario. Dopo le elezioni, è impedita la riassunzione di funzioni giurisdizionali ed altri limiti sono disposti per i magistrati nominati ad incarichi amministrativi. Infine, è prevista una generale riduzione dei fuori ruolo in modo che i giudici possano dedicarsi veramente alla giustizia.
Finora, l’attenzione è stata rivolta tutta ai pochi punti contestati di questa riforma. I battibecchi su singoli temi hanno fatto perdere di vista il complessivo nuovo concetto di giustizia che alimenta l’intero disegno riformatore, un’idea di giustizia più sollecita, meno pesante, più efficace e nello stesso tempo più mite; una giustizia che rispetta il precetto costituzionale della ragionevole durata dei processi; una giustizia attenta ai settori più sensibili, quali la giustizia minorile, la gestione delle carceri, il diritto di famiglia; una giustizia davvero al servizio dei cittadini. Si può dire che mai governo abbia dedicato tanta attenzione, risorse e capacità innovativa alla giustizia, nello stesso tempo chiamando a collaborare all’impresa tanti esperti ed addetti ai lavori.
Tra breve si terranno i referendum. Dei cinque proposti, tre dovrebbero svolgersi (quello sulla custodia cautelare in carcere, quello sull’incandidabilità e le decadenze e quello sulla valutazione dei magistrati), perché si tratta di materie non regolate dalla riforma. Quello sul sistema elettorale del Csm è superato dalle norme in corso di approvazione. È in forse quello relativo ai passaggi dei magistrati dalle procure agli organi giudicanti e viceversa (la riforma ne riduce il numero da quattro a uno, mentre il referendum propone una completa separazione).
Non tutta la riforma della giustizia è stata così realizzata, ma un nuovo disegno è stato proposto e la sua attuazione avviata. Manca la riforma della giustizia tributaria, per cui è pronto il progetto. Ora bisognerà assicurarsi che i processi abbiano davvero una durata più breve e certa, con limiti da non superare. Sulla separazione tra giustizia e politica bisognerà tornare, per assicurare una vera indipendenza dei giudici. I pubblici ministeri dovranno essere inquirenti, non giustizieri. I magistrati dovranno ritornare tutti a fare il loro mestiere, senza occupare posti nel legislativo e nell’esecutivo. Quella minoranza di giudici che continua a strillare dovrebbe rendersi conto che dà prova di autolesionismo, perché contribuisce così a diminuire la fiducia dei cittadini nella giustizia, un bene essenziale, che va invece rapidamente recuperato.
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Luigi Ferrarella, Corriere della Sera
Che paradosso: chi lamenta l’appiattimento dei giudici sui pm ora fa però dipendere la pagella dei magistrati proprio da scostamenti statistici.
La contraddizione è talmente evidente che fanno allora finta di non vederla quei settori parlamentari che da anni additano come patologiche le elevate percentuali di accoglimento delle richieste di arresto o di condanna formulate dai pm, e che ora nella legge di modifica dell’ordinamento giudiziario (approvata martedì alla Camera) vogliono tuttavia agganciare la valutazione positiva della professionalità dei magistrati proprio all’assenza di «gravi» anomalie statistiche rispetto a elevate percentuali di conferme delle decisioni nei gradi successivi.
Al netto del conformista scimmiottamento del peggior slang aziendalista attorno alla «performance» dei magistrati, verrebbe proprio voglia di vedere in concreto a chi andrebbe il «voto» negativo in caso di assoluzioni fuori-statistica, posto che nelle udienze di quasi tutti i processi vanno pm diversi da quelli che li hanno istruiti; e che molti dei processi in Tribunale, e tutti in Appello, sono decisi da un collegio di tre giudici, senza che nel segreto della camera di consiglio si possa sapere chi dei tre sia eventualmente stato in minoranza con la propria convinzione differente. Si indurranno forse i giudici dissenzienti a fare sempre la «busta», cioè a depositare in cassaforte la prova scritta del proprio dissenso, per pararsi in chiave autodifensiva dai futuribili contraccolpi sulla carriera?
Nessuno meglio degli avvocati potrebbe inoltre spiegare agli sbrigativi legislatori quanti orientamenti giurisprudenziali — dati oggi per acquisiti, e fondamentali per i diritti dei cittadini nella vita quotidiana, dal lavoro alla salute, nel penale come civile — siano in realtà maturati negli anni soltanto grazie alla breccia fatta (a volte persino prima nelle Corti sovranazionali che in quelle italiane) dalla elaborazione di magistrati non arrestatisi agli apparenti immobili approdi dell’epoca. Peraltro nemmeno esiste — né al ministero né nei singoli uffici giudiziari — un tasto di computer schiacciando il quale escano gli esiti delle inchieste di un pm o la tenuta delle sentenze di un giudice. Al punto che, se il tema fosse davvero migliorare le valutazioni di professionalità delle toghe, già gioverebbe prevedere banalmente una piccola rivoluzione: e cioè che il risultato di ogni fase di un fascicolo e le sue motivazioni vengano comunicati in automatico a tutti i magistrati occupatisene in precedenza, in modo che essi (e i loro dirigenti nell’avere il polso dell’ufficio) possano rimeditare sulle proprie scelte, e mentalmente magari confermarle anche dopo averne visto l’esito finale, oppure farne tesoro per situazioni analoghe in futuro.
L’impraticabilità materiale del sistema immaginato dal ddl non deve peraltro eclissare l’insidiositá del suo presupposto: la sottostante idea che il processo sia una «gara»; che l’attività del magistrato sia quindi una «performance»; che il fallimento sia «non vincere» il processo, quando invece, se dal contraddittorio tra accusa e difesa su una imputazione seriamente istruita scaturisce un’assoluzione, quel percorso è esattamente il senso del metodo del processo. E che quindi gli imputati e le parti civili nel penale, come i cittadini nelle cause civili, se alle prese con controparti processuali «eccellenti» quali una grande azienda o un importante «colletto bianco», da angolazioni diverse debbano parimenti condividere l’aver di nuovo paura (come in epoche antiche) che la legge non sia più uguale per tutti, e cioè che il loro pm in indagine e il loro giudice nel processo inizino a temere per la propria carriera in funzione del possibile esito del giudizio. E che in definitiva la struttura della magistratura non sia più quella di potere orizzontale e diffuso delineata in Costituzione, ma verticale e gerarchico: in linea peraltro con una tendenza carsica già dalle norme del 2006 senza che a contrastarla fossero tempestivi anticorpi nella magistratura, anzi spesso con il fattivo concorso proprio di dirigenti giudiziari nati «Masaniello» quando (specie nelle correnti di sinistra) erano giovani, ma atteggiatisi poi a piccoli «Re Sole» di Procura o Tribunale (con tanto di rispettive «corti») appena hanno iniziato a maturare incarichi direttivi.