la Repubblica, 28 aprile 2022
Tassare in tempo di guerra
Il dibattito in corso sulla riforma fiscale è sconcertante, anche in prospettiva storica. Un punto largamente condiviso è che in tempi di crisi non è opportuno aumentare la pressione fiscale, che anzi andrebbe ridotta. Questo punto, che ha alcune buone motivazioni, può però essere inteso in due modi diversi: non aumentare la tassazione pro capite, o non aumentare le tasse a nessuno.
La prima accezione consente, a parità di gettito, un riequilibrio del carico fiscale ed è sostanzialmente preferibile perché, almeno in linea di principio, permette di rimediare a storture accumulatesi nel tempo. Inoltre, apre la strada ai ricchi per assolvere a quella che è, storicamente, una loro funzione specifica in tempi di crisi: contribuire con le proprie risorse private al conseguimento del bene pubblico.
Le società contemporanee tendono a dare per scontato che l’arricchimento individuale senza misura sia non solo lecito, ma anche auspicabile. Tuttavia, non è sempre stato così: nel Medioevo, il ricco era guardato con riprovazione in quanto peccatore (nella dottrina cattolica, l’avarizia è un vizio capitale) e non trovava posto nella società cristiana ideale. Solo a partire dal Quattrocento, proprio mentre nelle maggiori città le diseguaglianze di ricchezza aumentavano divenendo sempre più “visibili”, la riflessione sul ruolo dei ricchi iniziò ad adeguarsi alla situazione di fatto. Vennero quindi identificate alcune loro funzioni specifiche, tra cui la prima e principale era farsi tassare, in varie forme, in tempi di crisi. Nell’efficace immagine dell’umanista toscano Poggio Bracciolini, i ricchi erano utili alla città in quanto “granai di denaro” a cui si poteva attingere in caso di urgente bisogno. Una città senza ricchi capaci di accumulare risorse si sarebbe trovata sprotetta di fronte alle avversità.
L’idea che, in tempo di crisi, sia legittimo chiedere ai ricchi di contribuire di più rimane radicata nella cultura occidentale. Nel secolo scorso il New Deal di Roosevelt, che contribuì a porre fine alla Grande Depressione, fu finanziato anche introducendo una tassazione fortemente progressiva su redditi e patrimoni.Tuttavia, oggi è divenuto politicamente assai difficile tassare i ricchi. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha avanzato varie proposte in tale direzione, che però prevedibilmente verranno affossate da un Congresso fortemente polarizzato.
In Italia, dove invece abbiamo un governo di (quasi) unità nazionale, le cose non sembrano diverse: ogni ipotesi di contributo di solidarietà da parte dei più abbienti viene regolarmente scartata. Perfino la riforma del catasto, che in linea di principio consentirebbe di risolvere alcune vistose ingiustizie, è stata approvata solo a condizione di non portare a un aumento delle tasse per nessuno (e non semplicemente a un aumento del prelievo complessivo).
La riluttanza a far contribuire i ricchi è storicamente ancor più bizzarra se si considera che le crisi del ventunesimo secolo sono state eccezionalmente generose nei loro confronti, danneggiando proporzionalmente di più i poveri. Secondo una stima, in Italia, durante la Grande Recessione del 2007-09 e la crisi del debito sovrano del 2010-11 la quota di ricchezza dell’1% più ricco è cresciuta: dal 17% del 2007 al 19% del 2012. Anche la crisi causata dal Covid 19 ha risparmiato (relativamente) i più abbienti. L’ipotesi di richiedere loro un contributo, anche solo temporaneo, parrebbe quindi giustificata anche in prospettiva di un riequilibrio delle storture causate dalle crisi. Si discute, invece, di finanziare nuovi interventi (inclusa una riduzione della pressione fiscale) in deficit, aumentando il debito. Ma chi lo ripagherà? Date le tendenze degli ultimi anni, difficile immaginare che saranno i ricchi.