il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2022
La guerra potrebbe durare 20 anni
Mentre il Pentagono continua a giocare al ribasso sul fronte nucleare, le parole del suo capo sullo scopo delle armi all’Ucraina sono chiare, fino a un certo punto. Annullare la capacità militare, fin qui è chiaro, ma in the long haul è meno chiaro. Vorrebbe dire “nel lungo termine” nel senso che è uno scopo politico di ridimensionamento della Russia a livello regionale e globale o è il risultato da ottenere con la guerra in Ucraina? Nel primo caso c’è ancora spazio per la diplomazia e la politica, ma non in sostituzione della guerra; nel secondo caso no: adesso parlano solo le armi e la minaccia concreta della guerra nucleare.
Di fatto, in entrambi i casi il “lungo termine” denuncia la volontà americana di continuare la guerra. E questa non dovrebbe essere una buona notizia per nessuno, anche se per qualcuno è invece ottima.
Allora la questione del lungo termine deve essere approfondita: è una rassicurazione per chi vuole la guerra lunga e dispendiosa, o una sorta di sfilamento dalla responsabilità che essa comporta per gli americani e in particolare per questa amministrazione strutturalmente destinata a finire fra due anni o a essere azzoppata già fra sei mesi? In quest’ultimo caso si tratterebbe di un tentativo di lasciare il conflitto in eredità a qualcun altro.
Viene quindi naturale chiedersi quanto possa essere lungo il “lungo termine” stabilito da Biden e messo a verbale da Austin e Blinken. Se si trattasse del solito termine vago buttato lì quasi per caso non dovremmo preoccuparci della guerra dei fatti, ma di quella delle parole a vanvera, così comune tra i politici. Tuttavia Austin non dovrebbe appartenere a tale risma. È un ex generale, con record di carriera come ultimo comandante delle forze americane in Iraq (2011) e primo afro-americano ad assumere il comando di CENTCOM dal 2013 al pensionamento nel 2016. Nei successivi cinque anni ha avuto incarichi da colossi industriali quali Raytheon Technologies, Nucor, Tenet Healthcare e dalla Auburn University. Nel 2021 è stato nominato Segretario per la Difesa (primo afroamericano). Quindi ciò che dice dovrebbe avere un senso ben preciso. Ma anche quello che non dice ha senso. Tra il “lungo termine” e l’immediato ci sono almeno altre due misure: il breve e il medio termine. Se Austin non le cita significa che non lo sa nemmeno lui.
Tuttavia il lungo termine non è completamente indeterminato. Nelle politiche nazionali è lungo quanto il mandato. In politica internazionale è lungo quanto il ciclo di potere che determina la politica.
Raramente esso è stato inferiore ai 20 anni e questo è un periodo quasi magico per i grandi uomini e le loro disgrazie. Napoleone: dalla Campagna d’Italia 1796 a Waterloo passano vent’anni. Hitler: dal 1925 pubblicazione di Mein Kampf alla morte nel 1945 sono vent’anni. Mussolini è durato “il Ventennio”, Stalin governa l’Unione Sovietica formalmente riconosciuta dagli Usa dal 1933 al 1953. Churchill ha ricoperto vari incarichi di governo nazionale per un totale di 20 anni di cui 9 da primo ministro. F.D. Roosevelt negli Stati Uniti è stato nel governo federale per 20 anni di cui 12 da presidente. Anche Mao Tsé Tung nella sua vita politica così longeva ha avuto cicli ventennali. Dai successi ottenuti durante la “Lunga Marcia” (1935) al primo piano quinquennale (1953-58) passano vent’anni e dal fallimento disastroso del “Grande Balzo in avanti” (1958-61) al fallimento della Rivoluzione culturale trascorre quasi un altro ventennio (1976 anno in cui Mao muore).
Ma se 20 anni è il “lungo periodo”, il medio è dieci anni, il breve 2 anni e l’immediato è il fatidico “Adesso”, il perentorio “Now!”, tipico degli ultimatum, che Austin ha palesemente evitato. Il suo, non è un tentativo di stemperare i toni visto che in realtà anche le parole sommesse sono di una gravità eccezionale, ma forse è una semplice constatazione prettamente militare.
In guerra ogni ultimatum è preceduto da una serie oziosa di penultimatum e le rese “incondizionate” contengono sempre delle condizioni. In guerra “l’ultimo” non è una condizione accettabile. Questo termine presuppone un evento del quale chi vi partecipa non può verificare i risultati.
Il morto, colui che ha compiuto “l’ultimo gesto”, ha resistito o combattuto “fino all’ultimo” non è in grado di verificare o valutare il risultato della sua azione. Chi muore potrà essere preso a esempio, ma saranno altri a stabilire il valore di ciò che ha fatto, i suoi crimini o la sua imbecillità. E chi è disposto a morire dovrebbe sapere se ciò che gli viene chiesto intende aiutare o impedire il successo e dovrebbe saperlo prima di compierla. Il suo è il tempo del “penultimo” e in quel lasso deve poter provare orgoglio o vergogna per ciò che sta per fare seguendo la tentazione dell’omicidio o del suicidio. Dopo, con l’ultimo atto, non sarà più possibile. Questa dovrebbe essere la guerra o almeno la sua retorica.
Ma ciò che sta accadendo in Ucraina non appartiene né all’una né all’altra. Dopo la chiara intenzione statunitense non è più una guerra tra aggressori e aggrediti e nemmeno la retorica di combattenti disposti all’ultimo sacrificio. Si tratta semplicemente di disgraziati ai quali viene negata qualsiasi coscienza e consapevolezza del “penultimo”. È uno dei tanti tentativi di affermazione della potenza incurante degli uomini.
Di fatto, i “tentativi” sono soltanto esperimenti sulla pelle di altri o della propria gente. E tentare diventa affine all’in-tentare (un’azione proditoria), al sos-tentare (un proxy), al con-tentare (un padrone). Tutte cose che quasi sempre si risolvono nell’os-tentare (arroganza), nell’at-tentare (alla sicurezza) e nello s-tentare (a uscire dalla spirale).