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 2022  aprile 28 Giovedì calendario

Gli ultimi cowboy


Quando sono a New York e mi viene nostalgia del Wyoming, cerco con lo sguardo le pubblicità della Marlboro in metropolitana. Smanio dalla voglia di vedere il manto di un cavallo, lo scintillio di uno sperone, il profilo di montagne lontane, ruscelli traboccanti e una presenza che mi ricordi quei fattori e mandriani al fianco dei quali ho lavorato nel corso degli ultimi otto anni. Ma gli uomini sui poster, con i loro sguardi severi, privi di umorismo, non mi ricordano nessuno che conosca lì. Nella foga di idealizzarlo, paradossalmente abbiamo spogliato il cowboy della sua vera essenza. Se è «ombroso e taciturno» sarà perché non ha nessuno con cui parlare. Se «cavalca verso il tramonto», è perché è dalle quattro del mattino che sposta bestiame in sella al suo cavallo e dopo quindici ore di duro lavoro vuole solo tornare a casa dalla famiglia. Se da un lato è «un individualista convinto», è anche parte di una comunità: quello al ranch è un lavoro di squadra. Perfino i mitici cowboy di fine Ottocento battevano ogni giorno il Chisholm Trail in compagnia di venti o trenta colleghi. Piuttosto che il macho dal grilletto facile che la nostra perversa cultura gli impone di essere, il cowboy è spesso un uomo caratterizzato da una ruvida cordialità e una propensione al romanticismo. La sua «forza» non ha nulla a che vedere con gloriose conquiste e prove di forza. Spesso e volentieri le circostanze il puledro che cavalca o una tormenta inaspettata lo sopraffanno. Ciò che conta non è tanto esser forti di per sé, quanto più avere la forza di resistere. In poche parole, questo feticcio culturale che il cowboy è diventato altro non è che un semplice essere umano, uno dotato di spirito d’adattamento, pazienza e un robusto amore per la vita. «I cowboy sono come un mucchio di pietre devono subire di tutto, i calci dell’uomo, la pioggia battente, la neve, le sferzate del vento. Il loro compito è incassare» come mi disse una volta un veterano del mestiere.
Il cowboy è uno che ama il suo lavoro. Non può che essere così, visti i turni interminabili cui deve sottoporsi dalle dieci alle quindici ore al giorno per un misero salario di 30 dollari. Gli si richiede uno strano misto di vigore fisico e senso materno. Il suo compito nell’industria dell’allevamento bovino è agevolare la nascita e crescita dei vitelli e al contempo prendersi cura delle madri. Vive perlopiù a dorso di cavallo, e nel corso dell’esistenza ha a che fare più con gli animali che con gli uomini. Il mito che lo circonda è fondato sull’americanissimo concetto di eroismo: il valore di un essere umano dipende dal coraggio che dimostra. Nell’immaginario comune dunque la virilità è diventata sinonimo di individualismo, ma nel mondo dei ranch il coraggio non si palesa tanto nello sprezzo del pericolo quanto più nella prontezza d’azione, spesso in vece di un animale o di un collega. Se una mucca finisce in un pantano, il cowboy le getta un lazo al collo, poi avvolge la fune intorno al corno della sella e trascina fuori la mucca con l’aiuto del cavallo. Se un vitello nasce malato, può darsi che se lo porti a casa e lo massaggi fino all’alba davanti al fuoco. Un amico, il cui cavallo prediletto cercava invano di attraversare un lago con le pastoie, si tuffò in acqua e tagliò la fune per liberargli le zampe, poi lo condusse a riva cingendogli il collo col braccio come un guardaspiaggia, salvandolo così da sicuro annegamento. Poiché è messo al servizio di qualcosa o qualcuno al di fuori di sé, il coraggio del mandriano è disinteressato, una forma di compassione.
Sull’onere fisico che questo mestiere esige il mandriano minimizza. Una volta che la paura viene superata, la soglia del dolore si alza per andare incontro ai doveri del mestiere. Quando nel film Il cavaliere elettrico Jane Fonda domanda a Robert Redford se sta male, vedendolo alzarsi a fatica dal bivacco, lui risponde: «No, sono solo accartocciato». Una volta tanto un film che ci prende. Ricordo che il cowboy seduto accanto a me al cinema quel giorno sghignazzò, compiaciuto. Questa è gente che di rado si lamenta; dimostra stoicismo ridendo di se stessa.
Il rancher come il cowboy è di norma considerato un «macho» di poche parole, bevitore, imperscrutabile ma la verità è che non esiste figura al mondo che bilanci in maniera altrettanto naturale la parte femminile e quella maschile, la grazia e la virilità. Rude e vigoroso nell’aspetto, il mandriano è androgino dentro. Gli uomini dei ranch sono insieme levatrici, cacciatori, balie, medici e ambientalisti. Quella che viene interpretata come «durezza» la pelle segnata dalle intemperie, le mani callose, l’occhio eternamente strizzato e il ringhio nella voce è solo una facciata per mascherare una cedevolezza interiore. «Ora non ti sciogliere...» mi ammonì un proprietario di ranch il primo giorno che entrai nel suo capanno delle nascite, praticamente un campo da football. Un attimo dopo reggeva un agnello nero fra le braccia. «Questo piccoletto qui è un vero rubacuori».
Fra coloro che in passato scelsero di stabilirsi nell’Ovest c’erano tanti di quegli uomini del Sud degli Stati Uniti uomini in cerca di lavoro e di una vita nuova dopo la Guerra civile che ben presto la cavalleria e un rigido codice d’onore furono considerati tratti tipici di quella parte del Paese. Durante gli anni delle dispute territoriali c’erano ben poche donne in Wyoming e così, quando finalmente arrivarono (alcune come spose ordinate via posta da città come Filadelfia), fra i due sessi c’era un certo distacco, una formalità visibile anche oggigiorno. I fattori ancora si toccano il cappello e mi rivolgono un «Salve, signora», anziché stringermi la mano.
Anche i più giovani sono perlopiù schivi con le donne. Non sono tutti dei dottor Jekyll e Mr. Hide gentili con gli animali e ruvidi con le donne è solo che non sanno portare la dolcezza fra le mura di casa e mancano del vocabolario adatto a esprimere la complessità dei sentimenti che provano. Così ballano sfrenatamente tutta la notte, come metafora dell’esplosione di emozioni accumulata dentro, emozioni che quando emergono sono così intense e potenti che una semplice carezza sulla guancia o un «ti voglio bene» si lasciano dietro uno strascico interminabile.
(Per gentile concessione
di Black Coffee)