ItaliaOggi, 28 aprile 2022
Si decapitano anche le parole
Per fortuna c’è chi, con la dote encomiabile della celerità di scrittura, ci spiega, e quindi deride, il politicamente corretto. Compete ai coniugi Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, cui si deve il graffiante volumetto Manifesto del libero pensiero, edito da La nave di Teseo.
Sarebbe auspicabile, vista la diffusa insoddisfazione, che si provasse a cambiare davvero le cose. Invece si punta a mutare le parole, andando a cercare per ogni cosa il nome ritenuto adatto. Nascono così le parole «giuste», e di conseguenza sorgono le parole «sbagliate», epperciò impronunciabili. Un classico esempio: il termine «negro», dopo secoli di oggettiva presenza culturale, letteraria, biologica, è stato azzannato perché lo si giudica errato, discriminatorio, intollerabile. La nascita dei vari «non» (anziché «ciechi», «non vedenti»; invece di «bidelli», «non docenti»; in luogo di «sordi», «non udenti») va di pari passo con la sostituzione di termini ritenuti sgradevoli, come lo «spazzino» elevato a «operatore ecologico» o la «donna di servizio» abbreviata in «colf».
Il dramma è soprattutto recente, perché «nel XXI secolo il politicamente corretto è diventato l’ideologia dell’establishment, e la sinistra, che di quell’ideologia è stata l’alfiere, viene percepita come parte integrante dell’establishment stesso». Nel contempo, aumenta in maniera incontrollabile il numero dei suscettibili, se così vogliamo definirli, vale a dire «dei potenzialmente offesi, di tutti coloro che si sentono vittima di un odio, o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione. O peggio: si vedono intenzioni anche dove non ce ne sono».
Diviene facile un passo successivo, allorché «cresce un esercito di molestatori e molestatrici del linguaggio, incapaci di comprendere la natura convenzionale, cioè neutra e inoffensiva, degli usi invalsi in una lingua». Sono i teorici sostenitori della lingua che definiscono inclusiva. Essi propugnano la frantumazione del maschile detto non marcato, rivolto a tutti senza distinzioni: si veda la Costituzione («tutti i cittadini», nell’articolo 3).
Una gravissima e recente tendenza è quella iconoclasta, contestata da Mastrocola e Ricolfi: «La cultura della cancellazione pretende di togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che collida con i sentimenti oggi dominanti e che possa apparire offensiva per il singolo o per una o più categorie di persone: o per la storia che racconta, o per le immagini che veicola, o per la vita e la personalità dell’autore, o per qualsiasi altra caratteristica che possa venir concepita come scorretta o lesiva di qualche diritto o sensibilità».
È essenziale vedere come questa aberrazione cancelli la storia, pretendendo di giudicare il passato sulla base dell’odierno politicamente corretto. Ne è diretta conseguenza l’abbandono di ogni forma di dialogo, perché i sedicenti buoni non dialogano con i reputati cattivi: «si limitano a etichettarli e li evitano come la peste». Si guardano dallo scorrere i loro libri, però si attribuiscono il diritto di criticarli e ostracizzarli pur non avendoli letti.
Conseguenza, del massimo pericolo: «Nell’accesso a determinate posizioni non contano il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, la professionalità, ma quel che hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali, devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante». Càpita così che si debba un risarcimento ai discendenti di minoranze: chi discende da un bianco deve pagare per progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati. Il tutto, indipendentemente dalla realtà del presente e dalla realtà del passato.
I due autori concludono la riflessione con un sintetico, ma efficace, «Manifesto dei LiberoParolisti». Vi si leggono precetti da condividere: «Chi la pensa diversamente non è il cattivo, è solo uno che ha altre idee»; «Non riconosciamo a nessuno il diritto di ergersi a legislatore del linguaggio, imponendo a tutti gli altri come chiamare le cose e le persone»; «L’autocensura preventiva, che ci impedisce di pensare quel che i custodi del Bene ritengono sia meglio non pensare, è il veleno più mortifero sparso dal politicamente corretto».
Fondamentale è l’appello all’arte come libertà, tema che allontana dall’estetica ogni considerazione etica, sicché non si giudichino Rimbaud o Verlaine o Proust o Baudelaire, per restare fra le lettere francesi, ricorrendo alla morale. Importante è l’ammonizione sul passato che si studia, «per quel che è stato»: se lo si esamina dal presente, non lo si cambia e ancor meno non si cancella. Se nessuno va penalizzato per il colore della pelle, neppure va privilegiato. Mai come ora vige «il diritto di ritenerci europeisti e atlantisti senza dover per forza aderire a vincoli linguistici e mentali imposti dall’alto». In sintesi: «Liberi pensanti e liberi parlanti in libera Europa e libero Atlantico».