Corriere Fiorentino, 27 aprile 2022
Intervista a Beatrice Venezi
«Sono il tipo che piange, sì. Quando le cose vanno male all’inizio mi scoraggio, verso lacrime per tre giorni. Ma poi riparto all’attacco: quando hanno rifiutato la mia ammissione al conservatorio Giuseppe Verdi a Milano, la prima volta, mi son detta: Beatrice, ok, aspetti un anno, ti prepari, lo sai che ci sono solo due o tre posti nella classe di direzione d’orchestra. Fai del tuo meglio e...»
E...?
«L’emozione deve avermi giocato un brutto scherzo. Un seconda volta. Probabilmente non ero pronta per quello che la commissione si aspettava, era una questione di maturità. Dover aspettare un altro anno è stata dura».
Beatrice Venezi, sarà anche stata bocciata, avrà pianto, avrà aspettato. Ma a 25 anni era il più giovane direttore d’orchestra d’Italia. E anche la più invidiata e mediaticamente esposta.
«L’esposizione la paghi però, soprattutto se vai a Sanremo: tanta visibilità ma anche tantissime critiche quando uscì fuori la questione che volevo farmi chiamare direttore e non direttrice, oltre alle osservazioni sessiste. Ma soprattutto per aver deciso di partecipare a un programma così tanto “pop”: ti mettono in croce a vita per aver “contaminato” la purezza della musica alta. Vedo tanta cattiveria e tanta mala fede».
Quando si è confrontata la prima volta col problema della differenza di genere?
«Studiavo con il maestro Piero Bellugi, personaggio dall’umanità incredibile. Una volta, dopo una lezione, rimanemmo da soli: non aveva mai affrontato il tema della differenza di genere. Io mi cullavo nell’idea che non ci fosse alcuna differenza, non mi ero mai posta il problema che non ci fossero donne direttrici. Mi disse che aveva parlato con uno dei suoi figli, che si occupava di arti circensi, che gli aveva chiesto se le mani femminili potessero essere più espressive di quelle maschili nella direzione. Un momento chiave di formazione della mia sicurezza».
Poi ci ha sbattuto la faccia contro.
«Infatti al conservatorio Verdi a Milano non mi davano le stesse possibilità che davano ai maschi. Era un continuo di battute sessiste, anche all’Accademia Chigiana. Cose del tipo “è una donna, cosa volete che faccia?” oppure veniva rimarcato che non potessi vestirmi in abiti femminili come se dovessi per forza somigliare a un uomo. Credo sia la volontà di fare dei propri allievi delle piccole copie degli insegnanti».
Ed è un male?
«È la differenza che passa tra un insegnante e un maestro: maestro è chi ti dà la possibilità di esprimere chi sei. Ma non c’erano modelli femminili a cui rifarsi, anche solo per la postura del corpo. Perché le differenze nel corpo tra uomini e donne influiscono sulla direzione».
La sua prima volta su un podio?
«A 22 anni e con tanta emozione addosso. Anche se quella “magica tranquillità del podio” mi avvolse non appena iniziai. È qualcosa che ancora oggi non riesco a spiegare: qualsiasi inquietudine provi, rimane sempre in camerino. Mi trovavo nella mia Lucca, alla Basilica di San Giovanni, dirigevo L’Eroica. Di nome e di fatto».
All’epoca si era già manifestato il problema di essere «un direttore e una donna» che poi l’ha accompagnata fin qui in carriera?
«Credo sia stata l’unica volta in cui non ho sentito addosso quello sguardo di disapprovazione. Forse proprio perché ero circondata da conterranei».
Com’era Beatrice da piccola?
«Ballavo e canticchiavo anche in fasce. O almeno così raccontano i miei».
Era una bambina prodigio?
«Una bambina che si muoveva goffamente. Ma la musica, l’espressione del ritmo attraverso il corpo, ha fatto parte di me fin dalla tenerissima età. Prima con la danza, poi col pianoforte».
Che ricordi ha del pianoforte, agli inizi?
«Una vaga immagine delle manine sopra i tasti, come se ai miei occhi si stesse dischiudendo un segreto solo per pochi. Eppure, non era quello lo strumento dei miei desideri».
Qual era?
«Sentivo di voler iniziare con qualcosa di più ritmico e primitivo come il battito del cuore, infatti ero affascinata dalle percussioni».
Già all’epoca sfrontata, «tribale», agguerrita come la vediamo oggi a trent’anni?
«Macché: timida, introversa. Tutto il contrario di quello che può sembrare adesso. Ero affascinata da un linguaggio, la musica, non vincolato alle parole che incasellano tutto».
La comunicazione emozionale.
«Una caratteristica che mi sono portata dietro: ad Avignone il primo clarinetto venne in camerino e mi disse che aveva perso due figli ma che grazie a persone come me continuava a fare questo lavoro. E ci siamo abbracciati».
L’empatia. Nonostante tanta diffidenza.
«Già. Come ripenso spesso a una signora dell’Orchestra di Bolzano che si alzò dalla fila dei violoncelli, mi fermò in corridoio e disse: ci avevano detto che lei era solo un personaggio mediatico e per questo ero prevenuta nei suoi confronti. Invece la ringrazio: questa è l’ultima produzione a cui partecipo prima della pensione, ed è un piacere aver potuto cambiare opinione».
Quindi anche gli ostacoli più ardui si possono superare. Ora tocca al sessismo.
«Quello non l’ho mai superato. Ma viaggiare e conoscere culture diverse mi ha aiutato. In Francia nessuno nota se sei uomo o donna, solo se sei o no un buon chef d’orchestre. Punto».
Per dirla alla Frankenstein Jr…
«Sì-può-fa-re. Però le differenze le vedi. Con l’orchestra di Clermont-Ferrand in Alvernia e con quella di Avignone Provence è tutta una risata e una battuta, ma lavoriamo duro. In Italia invece sembra quasi che si faccia cultura solo se si rimane seriosi, guai a ridere o divertirsi. C’è questa idea che se non si è abbastanza “noiosi” significa che ciò che si fa non è serio».
L’Italia nella musica è sempre stata un passo avanti, ma sul piano socio-culturale siamo ancora indietro?
«Nell’ambiente accademico mi additano ancora come se fossi un “prodotto commerciale” di intrattenimento e storcono il naso. Come se fossi un bluff per forza, un continuo “non abbastanza”. All’estero non succede».
Il fatto che lei sia anche molto bella forse non aiuta… a superare certi pregiudizi.
«Essere bella è un problema. Negli occhi delle persone leggi una sorta di “hai rotto eh, vuoi essere preparata, bella e di successo? È troppo, non puoi”. Per farcela devo essere molto più preparata di un collega maschio».
Il momento della svolta?
«A Cagliari, al mio debutto in una fondazione lirica di alto livello. Quella è un’orchestra rinomata e di qualità, ma non facilmente malleabile, te li devi conquistare col sudore. E fino alla recita precedente non c’era nemmeno pubblico, per paura del Covid. Poi toccò a noi e la platea era piena: è il momento in cui ho sentito per la prima volta il sapore della vittoria. Soprattutto dopo, in camerino, con i musicisti che mi venivano a dire “non vediamo l’ora di riaverti con noi”».
E quando è costretta ad andare allo scontro?
«Capita con alcuni primi violini, quelli che sognano di fare i direttori e non ci riescono. Ripenso all’inizio del 2020, quando un violinista di nome, di un’orchestra importante, si rivolse a me in modo così paternalistico come a dire “non ti preoccupare che ci penso io che sono un uomo e sono più grande di te”. Potevo lasciarlo fare e rimanere tranquilla, perdendo autorità. O andare allo scontro. Mi si è chiusa la vena e lo volevo mangiare. Ma un direttore non deve mai trascendere, l’autorità non si dimostra alzando la voce. Aver mantenuto la calma mentre lui cercava di provocarmi lo ha fatto uscire dai gangheri: si è alzato e se n’è andato. Ho continuato a lavorare con gli altri che sono venuti a scusarsi per lui. Avevo portato dalla mia tutto il resto dell’orchestra, emarginando il soggetto molesto. Lui ha avuto una crisi isterica, io un concerto».
C’è solo la musica nella sua vita?
«Ho un compagno, Juan, e stiamo pensando di allargarci. Ma tenere insieme lavoro e famiglia sarà una sfida. Non tutti gli uomini sono pronti ad accettare che io sia assente per lunghi periodi e per quanto ci si proclami di mentalità aperta, certi ribaltamenti dei ruoli non sono facili da accettare. Ma sono stata fortunata».
Si può essere una buona madre e una buona professionista insieme.
«Ho ancora nel cuore un cantante che durante la Manon Lescaut al Goldoni di Livorno nel 2017 mi ha detto: Beatrice, sarai sicuramente una buona mamma, si vede da come ti prendi cura di noi e dell’orchestra».
Juan la aiuta a superare tutti gli ostacoli che trova nel lavoro?
«Conosce i rituali delle orchestre, si occupa di economia ma è diventato un acuto osservatore delle dinamiche tra artisti, sa percepire che aria tira all’interno delle sale. Mi dice: si parte sempre da un “ma che vuole questa?” per passare a un “potrebbe andar bene ma è sempre una donna carina, quindi non va bene” e finire con “insisti e insisti, te li sei conquistati».