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 2022  aprile 27 Mercoledì calendario

In morte di Donna Assunta Almirante

Stefano Cappellini per la Repubblica
La chiamavano l’Imperatrice madre. E l’impero, naturalmente, era quello postfascista di cui il marito di Donna Assunta, Giorgio Almirante, era stato leader assoluto, per oltre 18 anni segretario del Movimento sociale italiano e guida carismatica per tutto il dopoguerra. A Donna Assunta, nata a Catanzaro nel 1921 come Raffaella Stramandinoli e morta ieri a Roma, Assuntina era il suo nomignolo da piccola, la definizione di imperatrice non dispiaceva, quella di postfascista proprio no: «Giorgio – diceva ancora dopo la morte del marito nel 1988 – non si è mai definito postfascista. E poi, che vuol dire? È un modo per creare una parola nuova o ha un significato? Vuol dire che prima sei stato fascista? È ridicolo».
Ecco, si può dire – prendendo a prestito le parole da Giorgia Meloni, ultima arrivata nell’asse ereditario della destra ex fascista – che Donna Assunta sia stata per decenni la custodia della “matrice”, quella che la leader di Fratelli d’Italia cercava invano nel recente assalto alla sede della Cgil (FdI ha conservato il simbolo del Movimento sociale italiano, la fiamma che arde sulla bara stilizzata di Benito Mussolini e di Almirante conserva il culto di padre nobile, anche se l’iniziazione di Meloni nel Msi non fu certo di rito almirantiano, tutt’altro). Quella matrice, insomma, che l’adorato Giorgio («Che uomo meraviglioso, che occhi!», diceva lei sospirando come nei melò degli anni Cinquanta) sintetizzava così: «La parola fascista io ce l’ho scritta in fronte». Tanto l’aveva scritta in fronte che Donna Assunta ricordava mezzo divertita mezzo indignata il debutto politico del non ancora suo marito, in un comizio a piazza San Giovanni nel 1947, nella Roma che portava ancora i segni vivi del nazifascismo. «Cittadini», esordì Almirante al microfono. «A fijo de ’na mignotta», rispose subito una voce urlante dalla piazza che non perdonava ad Almirante il suo ruolo di notabile fascista e rastrellatore di partigiani. Naturalmente finì a cazzotti.
Sposata in prime nozze al Marchese Federico de’ Medici, Donna Assunta aveva conosciuto Almirante nell’ottobre 1951, in Calabria, quando da proprietaria terriera («Avevo circa 300 addetti, tutti comunisti!», raccontò a Stefano Di Michele nel libro Mal di destra ) era andata in visita al conte Sabatini per trattare una partita di vini. Fu amore a prima vista, anche se di signora Almirante ce n’era già un’altra, la prima moglie del leader missino. Situazione sconveniente all’epoca, tanto più nella destra Dio, Patria e Famiglia. Il bello è che al referendum del 1974 sul divorzio Almirante – onusto di ben due signore che rivendicavano il titolo di lady Almirante – si schierò contro. «Ma la verità – confessò poi Donna Assunta – è che Giorgio era favorevole al divorzio, nel partito lo costrinsero a cambiare posizione».
Nel suo ruolo di vestale dell’Idea, maiuscola come lo scrivono tuttora i camerati, Donna Assunta era il galateo del neofascismo, le capitava di andare ospite in tv a dare pagelle a colonnelli e marescialli del partito, a lei si rivolgevano subito i giornalisti per capire se un aspirante successore di Almirante aveva la stoffa per il ruolo, sempre a lei si chiedeva se la tal dichiarazione fosse degna dell’album di famiglia o del ripudio. Verso Gianfranco Fini, che di Almirante prese il testimone nel Msi ma fondando Alleanza nazionale ne tradì le parole d’ordine – «tutto si può fare, ma non passare le colonne d’Ercole del fascismo», e anche «non rinnegare, non restaurare», così diceva del regime il leader storico – Donna Assunta aveva un piglio materno, ora lo consolava e lo lodava, ora lo strigliava e persino rinnegava. Ma sempre pronta a tornare indietro, appunto come una madre con i suoi figli un po’ scapestrati e comunque mai all’altezza del padre, ovviamente. Aldo Cazzullo raccontò sul Corriere della Sera la furia dei giorni successivi alla vista di Fini in Israele, quella del «fascismo male assoluto», quando tanti militanti cercavano sfogo presso di lei ma Assunta, inferocita con l’ex delfino di Giorgio, aveva dato mandato di passarle al telefono solo Alessandra Mussolini, la Ducetta.
Sempre impeccabile con la sua piega bionda e i tailleur con spilla, Assunta viveva il suo ruolo politico in simbiosi con Almirante, al punto da replicare la storica rivalità del marito con Rauti duellando a sua volta pubblicamente con la moglie dell’ancor più fascistissimo Pino, fondatore di Ordine nuovo e poi rientrato nel Msi. «Una volta la moglie di Rauti mi rimproverò dicendomi che lei aveva sempre lavorato e aveva i reumatismi mentre io era sempre bella fresca e piena di anelli. E io le risposi che, per i reumatismi, poteva comprarsi i guanti». Si vantava di essere temuta pure dal marito, anche se forse non si rendeva conto di non rendergli un buon servizio nel rivelare che lui – per via della disciplina e della severità in casa – l’aveva soprannominata “zio Adolfo”, non serve spiegare in riferimento a chi.

Tommaso Labate per il Corriere
«Quando non ci sarò più, si dimenticheranno di me. E si dimenticheranno anche di voi». Ascoltandole dalla voce sofferente dell’amato Giorgio Almirante, queste parole, Donna Assunta si era commossa. Era l’inverno del 1988, il marito aveva lasciato la guida del Movimento Sociale Italiano al «delfino» Gianfranco Fini, la destra italiana era attesa a cambiamenti fin lì neanche immaginabili e lei, Donna Assunta, osservava da vicino un mondo, il suo mondo, che non sarebbe mai stato più quello che aveva conosciuto.
Raccontano che dopo la morte del consorte, arrivata il 22 maggio dello stesso anno, in piena primavera, a chiunque le ricordasse l’amara profezia sulla sorte da «dimenticato» del cognome Almirante – che valeva per la memoria del marito Giorgio e anche per lei, che era rimasta viva – Donna Assunta avrebbe risposto sfoderando quel ghigno beffardo che negli anni a venire avrebbe trasformato in una specie di marchio di fabbrica, unito al gesto delle corna e all’immancabile urletto con cui teneva alla larga le iatture: «Tie’!».
Si è spenta ieri dopo aver superato il secolo di vita e raggiunto quello che, in fondo, era diventato lo scopo della sua esistenza. Impedire che la polvere del nuovo – la nuova destra, i nuovi leader, il nuovo tutto – si depositasse su quello che era stato, cancellandolo per sempre; ma anche smentire la diceria antica secondo cui campa cent’anni solo chi si fa i fatti suoi.
Il matrimonio
Nata Raffaella Stramandinoli nel 1921 a Catanzaro, e diventata «Assunta» perché da bambina la chiamavano «Assuntina», Donna Assunta cent’anni li ha vissuti senza mai farseli, i fatti suoi. Sposata giovanissima al marchese Federico de’ Medici, nel 1952 se ne separa per stare con Giorgio Almirante, il grande amore che nella vita – forse – bussa una sola volta. Le nozze arriveranno nel 1969, alla morte del marchese Federico, undici anni dopo la nascita della loro figlia Giuliana, che aveva preso il cognome de’ Medici.
Nel 1974, quando si avvicina il referendum sul divorzio, la condizione familiare degli Almirante diventa uno strumento di delegittimazione interna del segretario dell’Msi. A Donna Assunta importa poco o nulla. «Io voto a favore del divorzio», ripete in ogni occasione. Al marito toccherà il peso di difendere la ragione del partito e di fare la campagna «contro» assieme alla Dc, rinviando i conti con la propria coscienza al segreto dell’urna. «Almirante», avrebbe ricostruito lei anni dopo, «era favorevole al divorzio. Ma siccome l’esecutivo del partito lo aveva messo in minoranza, ha dovuto accettarne le decisioni. Anche io ero favorevole. Perché, girando il mondo, ci eravamo accorti che molti, soprattutto i meridionali, si erano rifatti una famiglia».
Il percorso politico
Morto Almirante, non c’è ragione di partito che separa il pensare di Donna Assunta dal dire e quindi dal fare. Pur non essendo mai stata fascista – «Perché vengo da una famiglia antifascista» – diventa una specie di Cassazione della storia su quello che va fatto oppure no per difendere l’eredità politica del marito. Custode unica dell’ortodossia almirantiana, Donna Assunta sarà contraria alla svolta di Fiuggi impressa da Gianfranco Fini, suo antico «pupillo», e decisamente scettica sul berlusconismo. Alle Europee del ’99, quando Fini vara il progetto dell’Elefantino insieme con Mariotto Segni, arriva a minacciare un voto per la sinistra; poi però alla fine non ce la fa, si fa accompagnare al seggio, ritira la scheda e la annulla con una scritta a caratteri cubitali: «Viva Almirante!».
Da lì in poi, tolto Francesco Storace, avrebbe messo in riga chiunque: da Fini, ai colonnelli di Alleanza Nazionale, a Giorgia Meloni. Gli amici, a destra, si fanno sempre meno. Il telefono smette presto di squillare e, quando squilla, dall’altra parte ci sono più quelli «dell’altra parte», dai coniugi Bertinotti agli eredi di Bettino Craxi passando per la vedova dell’ex ministro socialista Italo Vignanesi, che per il compleanno dei cent’anni – nel luglio scorso – le ha fatto recapitare cento rose rosse.
Gli ultimi anni
Nel 2018, dopo le ultime elezioni politiche, sceglie assieme alla figlia Giuliana che è ora di lasciare le scene. Mai più interventi, mai più interviste, mai più parole pubbliche di quelle che un tempo erano capaci di provocare dei piccoli terremoti all’interno della destra. «Un ritiro alla Greta Garbo», si dicono mamma e figlia. Così sarà, da lì in poi, solo silenzio. Un silenzio però colorato, come il rosso acceso del suo rossetto, ostentato nella terrazza della sua casa ai Parioli anche nel giorno del suo ultimo compleanno, senza politici attorno.
Un deputato della Lega con un passato nel Fronte della Gioventù, Mauro Lucentini, era passato senza preavviso con un mazzo di fiori da far recapitare alla festeggiata. «Lascio solo questi, non vorrei disturbare». Donna Assunta l’ha fatto salire in casa, giusto in tempo perché ascoltasse la «Calabrisella mia» che le stavano dedicando degli amici. Per i non più amici, invece, hanno continuato a valere il ghigno beffardo, il gesto delle corna e l’immancabile «tie’!». Magari non detto ma solo pensato, questo sì. Fino all’ultimo sospiro.

Fabio Martini per la Stampa
Per tutta la sua lunghissima vita, durata un secolo, donna Assunta portò il suo nome spagnolesco con gran temperamento, arrivando a dire: «Sono imperatrice madre. Il popolo missino è mio». Un’autonomina da “sacerdotessa” dell’ortodossia della destra italiana decisamente impegnativa. E tuttavia quando il suo Giorgio – capo carismatico del Movimento sociale – la lasciò (era il 1988), Raffaella Assunta Stramandinoli vedova Almirante divenne per la destra missina quel che la moglie e la figlia del Duce, Rachele Mussolini ed Edda Ciano, erano state per il fascismo: testimoni e custodi della memoria. In questo modo perpetuando una tradizione: quella delle donne volitive della destra italiana. Rachele, Edda, Assunta e, oggi, in una situazione diversa, Giorgia Meloni.
Una storia italiana del Novecento, quella di Raffaella Assunta Stramandinoli. Era nata a Catanzaro il 14 luglio 1921, dunque un anno prima della marcia su Roma: con un portamento e con i lineamenti della bella ragazza meridionale, a 17 anni si sposa col marchese Federico de’ Medici, un possidente agrario, di 30 anni più grande di lei. Allora si usava così, ma la ragazza ha temperamento e, contro le convenzioni dell’epoca, ribalta il suo destino, lasciandosi trascinare dalla passione. Nel 1951, in quel di Cirò Marina, Assunta conosce Giorgio Almirante, che all’epoca era sposato, ma solo con rito civile. Ha raccontato lei: «Vestiva malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori, era smunto, ma mi colpì l’eloquenza da incantatore e la bellezza. Era bellissimo». Per molti anni restarono clandestini ma poi, quando nel 1968 il marchese de’ Medici muore, Almirante si fa trovare “libero": aveva divorziato.
Erano anni nei quali milioni di italiani, i nostalgici del fascismo, vivevano in una sorta di apartheid politico e sociale, quasi stranieri in patria e Giorgio Almirante – anche negli incontri segretissimi con Enrico Berlinguer – cercava di evitare che la generazione più giovane della destra si bruciasse. Disse in anni recenti Assunta: «Berlinguer? Una persona splendida. Si vedevano con Giorgio, nei momenti più bui e pericolosi». Giorgio chiamava scherzosamente Assunta lo «zio Adolfo» e sino a quando fu vivo, la moglie non ebbe ruoli politici. Non li ebbe neppure dopo, ma le sue interviste si trasformavano in pagelle con promossi e bocciati. Donna Assunta era verace, fumantina, lapidaria. Alessandra Mussolini? «Che deve fare quella? Ha pure aperto una pizzeria. Non è una vera Mussolini. Lei è goliardica, non è una persona seria come il nonno. Il suo cognome non le sta addosso».
Gianfranco Fini? «Anche mio marito era convinto che il partito avesse bisogno di un giovane che non avesse avuto rapporti col fascismo e che potesse portare avanti un Msi rinvigorito. Purtroppo il buon Dio ha cambiato le carte in tavola». Nel senso che quando Fini completò la storica svolta di Fiuggi, lei osteggiò lo spegnimento della fiamma missina. Donna Assunta non fu mai fascista o neo-fascista. Racconta l’ultimo portavoce di Almirante, Massimo Magliaro – «uno di famiglia», come lo definiva lei – «è stata una donna sfaccettata: era amica di Bertinotti e di Walter Chiari, di Cossiga e di Raimondo Vianello, aveva rapporti con Pertini e con Forlani e grazie alle sua comunicativa, si fece dire una battuta scherzosa anche dal generale De Gaulle: lei così bassa, io così alto!».
Negli ultimi anni per chi aveva accesso nella vecchia casa al quartiere Parioli era impossibile sfuggire allo sguardo di Giorgio Almirante: le foto opache, i ricordi, le gigantografie spuntavano da ogni angolo e una volta, al cronista de La Stampa, donna Assunta lesse il testamento del marito: «È un bene che uomini come me non raggiungano il successo. Di me si deve poter dire: era fatto per i tempi duri e difficili, era fatto per seminare e non per raccogliere». E sul rapporto con la moglie: «Ti temo anche io, vivo di riflesso e il mio sole sei tu...». Diversi anni fa Giuliano Ferrara scrisse di donna Assunta: «È il tipo classico del potere carismatico: fosse vivo Max Weber, il grande sociologo della prima metà del Novecento, avrebbe studiato il suo caso». —