La Stampa, 27 aprile 2022
La parola ai feriti del Donbass
Due mesi fa Nazar Hnativ, 27 anni, era un presentatore radio a Leopoli. Non aveva mai preso un’arma in mano né pensava l’avrebbe fatto. Poi, come molti, si è svegliato con la guerra in casa e ha deciso di mettersi a disposizione delle truppe come volontario. È stato addestrato ed è finito in Donbass, nella zona di Donetsk, addetto a una unità anticarro. Due settimane fa, con i cinque uomini della sua unità, era in un villaggio che non è autorizzato a menzionare per ragioni di sicurezza. Si stavano muovendo davanti al resto delle truppe per coprirle, provare a distruggere i tank russi per proteggere l’artiglieria ucraina. Mentre raggiungevano la posizione sono stati colpiti dai russi. Un attacco durato meno di mezz’ora, dice Nazar, che ricorda l’ora esatta. Erano le nove e trenta del mattino quando la sua gamba è stata ferita. Due dei suoi commilitoni sono morti, gli altri due gli hanno bendato la gamba, hanno aspettato nascosti per un’ora e mezza e quando il fuoco è cessato l’hanno portato nell’ospedale di Petrovsk dove i medici l’hanno stabilizzato e da lì nell’ospedale militare di Zaporizhja dove è stato operato e dove si trova ora, steso su un letto, il braccio ingessato e la gamba da cui sono state estratte le schegge coperta e malmessa.
Sul suo letto Germinale di Émile Zola e il telefono per chiamare sua madre, ogni giorno, e accertarsi che stia bene. Nella stessa stanza altri due giovani, appena arrivati dal fronte del Donbass, in condizioni critiche.
Nazar, sulle prime, è scontroso, cita le critiche di Zelensky all’Occidente «ci date le armi col contagocce» dice e poi il tono si fa più severo «siete venuti a vedere i soldati che combattono con poche armi perché i vostri governi sono indecisi o siete venuti per vederci moribondi e convincerli a mandare armi più aggressive, perché siete qui?».
Né l’una né l’altra ragione. Siamo nell’ospedale militare di Zaporizhja per raccogliere le voci di chi combatte su quello che è, oggi, il fronte della seconda fase dell’offensiva russa in Ucraina.
Sapere dove vedono la fine del conflitto, quali sono i presupposti di un accordo – se ci sono – per loro che combattono lontano dai tavoli della diplomazia.
Alla diplomazia, come ai governi occidentali, Nazar non crede. «Questa guerra finirà solo con la vittoria dell’Ucraina, non cederemo un centimetro quadrato, né cederemo alle richieste russe, la guerra finirà alle nostre condizioni, i confini costituzionali del paese, o con la morte del nostro ultimo uomo pronto a difenderli».
Davanti a lui, Nikita, l’addetto stampa militare dell’ospedale – ingegnere e manager fino a due mesi fa – annuisce. Tiene in una mano una razione di cibo dell’esercito russo e nell’altra i resti delle schegge che i medici estraggono dai corpi dei soldati. Un giorno di tutto questo, dice, faranno un museo. Il museo dell’invasione. «Celebreremo quella data come il giorno in cui la luce avrà sconfitto le tenebre russe».
Nazar, steso nella sua brandina, è impaziente. Vorrebbe tornare a combattere. Per sconfiggere gli invasori e per spezzare l’illusione di quella parte di popolazione ucraina che sosteneva i russi «non c’è più niente da discutere, né niente da negoziare, si parla con i buoni di spirito, per me un russo buono è un russo morto».
Per questo ribadisce che i combattimenti cesseranno solo con una vittoria ucraina e larga. Perché un passo meno di questo significherebbe cedere alle condizioni di Putin e «noi non ce ne facciamo niente della pace degli arresi».
La regione di Zaporizhzhia è al centro della seconda fase dell’offensiva russa. Ieri un rapporto del Ministero della Difesa britannico avvertiva che l’esercito ucraino si stesse organizzando per difendere la città da un possibile attacco russo da sud, sospetto confermato dagli attacchi delle sette del mattino, quando – secondo le notizie diffuse dall’amministrazione militare regionale – due missili guidati hanno colpito Zaporizhzhia, dopo che già nelle prime ore della giornata la società nazionale per l’energia nucleare, Enerhatom, aveva riferito che due missili da crociera avevano sorvolato la centrale nucleare della zona, la più grande d’Europa.
Iniziata la seconda fase dell’offensiva, l’esercito russo si sta muovendo lungo quattro assi: da sud verso Zaporizhzhia, a est spingendo più in profondità verso le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk e avanzando dalla strategica città di Izyum verso Sloviansk. Sono i combattimenti in questa regione che decideranno se i russi saranno in grado di conquistare parti più ampie del paese, se Putin si accontenterà dei territori conquistati, quanto l’esercito ucraino sarà pronto a cedere (apparentemente poco, stando alle dichiarazioni dei soldati) e quanto siano intenzionati a negare alle truppe russe una forma di trionfo per cui stanno combattendo in vista del 9 maggio, data simbolica per Putin, in cui si celebra il trionfo dell’Unione Sovietica sulla Germania Nazista. Putin ha bisogno di presentarsi come vincitore, liberatore della sua gente.
I russi vogliono tutte le regioni delle repubbliche separatiste prima di quella data. Regioni che prima dell’inizio dell’offensiva erano controllate per due terzi da Kiev. Oggi l’esercito ucraino controlla ancora città come Sloviansk, Severodonetsk, Kramatorsk che sono però città spettrali. Se ne sono andati quasi tutti seguendo l’appello del governo ucraino.
Chiedere ai cittadini di andare via risponde all’esigenza di salvare loro la vita, con la minaccia che si fa più vicina, soprattutto dopo i 50 morti alla stazione di Kramatorsk, ma significa anche svuotare i centri urbani per poter respingere un’eventuale avanzata russa con più accanimento e senza preoccuparsi dei civili.
All’ingresso della città, ieri mattina, una famiglia arrivata da Lyman aspettava un bus di evacuazione. I bambini in lacrime, spaventati e tremanti, la madre col volto teso e rancoroso, «abbiamo resistito finché abbiamo potuto, ma rischiavamo la sorte dei disgraziati di Mariupol».
Qualche chilometro più in là Iryna è seduta su un muretto, sta sfamando qualche gatto e un cane. Davanti a lei un edificio civile danneggiato dall’attacco che ha distrutto parte del direttorato dell’intelligence locale. Oggi tra le macerie il cartello con scritto «attenzione, mine».
Iryna è una dei pochi a non essere andata via. Non ha un posto dove andare, ha i suoi animali, la tomba di sua madre. Qualche giorno fa gli ufficiali di polizia hanno bussato alla sua porta per censire chi è rimasto in città, nella sua zona sono rimaste solo tre donne anziane, come lei, che non sanno dove andare e sperano che vada tutto bene.
Così aspettano.
Iryna ricorda che nel palazzo danneggiato dell’intelligence, nel vero inizio della guerra, otto anni fa, c’era una base dell’esercito russo. Un giorno lei e la sua amica Lena non avevano niente da mangiare, le pensioni non arrivavano più, e rimaste senza soldi hanno bussato alla porta dei russi per chiedere da mangiare. I soldati hanno dato loro due buste di cibo, e Iryna ha detto alla sua amica Lena, che era timorosa e spaventata: Vedi, sono dei nostri.
Per questo oggi quando parla della guerra, Iryna, comincia così: «Fatemi parlare direttamente a Vladimir Vladimirovi?. Vladimir, perché ci stai facendo questo, noi siamo la tua gente, siamo i tuoi russi, perché stai facendo questo alle nostre case? per favore dai tregua almeno a noi, lascia in piedi le nostre case».
Parla così, diretta a Putin, l’uomo che ha sempre rispettato, che oggi guarda con scetticismo ma non con livore. Sulle truppe ucraine non ha molto da dire, se non che vuole che la guerra finisca, che vuole la sua pensione, che vuole Kramatorsk e Sloviansk libere, ma non sa dire bene da cosa né esattamente liberate da chi.
Alla domanda finale, cioè se si senta più ucraina o russa, non esita un istante: russa prima, russa ora. E poi ripete, distribuendo molliche di pane ai suoi animali, Vladimir Vladimirovi?, perché hai fatto questo a noi, alla tua gente?