la Repubblica, 27 aprile 2022
La marcia su Roma
Solo Barbarossa non c’era, tra i fiori, la musica e gli applausi lungo la pensilina reale, mentre alle 8,50 del mattino di martedì 11 aprile 1922 il treno frenava in perfetto orario al binario 1 della stazione di Milano, e Vittorio Emanuele III si mostrava immobile nella divisa militare coperta da un pastrano grigioverde, in piedi dietro il cristallo del finestrino. Appena la porta del vagone Savoia si aprì, arrivò lo schianto del primo colpo di cannone, seguito dalle altre 49 salve d’onore sparate in due punti opposti della città, per salutare la prima visita del Re a Milano dopo la fine della guerra. La folla premeva sul piazzale, dove il battaglione “Sempre pronti” era schierato per il presentat’arm. Ma prima ci sono le strette di mano. Il sovrano si volta verso il Conte di Torino, verso il prefetto Lusignoli, l’onorevole De Capitani presidente del Comitato per le onoranze, il Gran Cerimoniere di Corte Duca Cito di Filomarino. Poi tutti si scoprono il capo, perché la banda del 67° fanteria ha intonato la Marcia Reale: e mentre l’inno sale sotto il tetto della stazione, guardandosi intorno il Re si accorgeche mancaqualcuno. Mancherà per tutto il giorno, nello sventolio dei tricolori che fa affacciare per tre volte Vittorio Emanuele al balcone del palazzo reale, nell’incontro con i reduci, le medaglie d’oro e i mutilati di guerra. E poi, la sera delle luminarie, nello spettacolo moderno dell’elettricità e dei suoi giochi di luce, tra gli scoppi infuocati dei bengala che si aprono bianchirossi e verdi, con 25 donne svenute nel fragore del buio. E anche il giorno dopo, all’inaugurazione regale della Fiera campionaria, e così il giovedì, fino alle 8,45 di sera, quando a salutare alla stazione il Re che parte ci sono col prefetto 4 senatori, il sottosegretario al Tesoro, 8 deputati, 6 generali, 9 consiglieri comunali, un duca, una contessa e una principessa. Ma non c’è il sindaco. Nei tre giorni del Re nessuno a Milano ha visto Angelo Filippetti, medico e cultore d’esperanto, ma soprattutto socialista, chiamato da tutti “Barbarossa”.
È un’assenza solenne, senz’altro storica, ma prima di tutto politica. Il Comune, infatti, aveva deciso di ignorare ufficialmente la presenza del Re in città. Pochi giorni prima del suo arrivo, lo stato maggiore del Psi milanese si era riunito per discutere sulla condotta da tenere nei confronti del sovrano. Il tema per i socialisti era delicato, da sempre. Dieci anni prima, quando Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Guido Podrecca e Angiolo Cabrini erano entrati al Quirinale per congratularsi col Re per essere scampato a due colpi di pistola anarchici davanti al Pantheon, il partito aveva deciso l’espulsione dei quattro “gradualisti” per l’omaggio insopportabile alla corona: e Benito Mussolini aveva approfittato dell’occasione per attaccare la monarchia, spiegando cheper unRe l’attentatoèun semplice infortunio professionale, come la caduta da un’impalcatura per un muratore, e per di più riguarda «il cittadino più inutile per definizione». I socialisti avevano deciso di disertare la sed uta reale della Camera che inaugurava la nuova legislatura nel 1919, e il primo dicembre erano usciti dall’aula appena il sovrano era entrato. Due anni dopo, Mussolini tentò di fare la stessa cosa con la prima pattuglia di deputati fascisti che aveva portato con sé in parlamento, per marcare subito la “tendenzialità repubblicana” del suo movimento. Ma fu sconfessato dal gruppo parlamentare, che bocciò a maggioranza il suo ordine del giorno facendogli capire subito che il rapporto tra il fascismo e la monarchia non sarebbe stato facile da maneggiare.
Adesso toccava di nuovo ai socialisti. Filippetti al momento della nomina aveva detto che voleva essere il sindaco di tutti i milanesi: e cosa deve fare il sindaco di Milano il giorno in cui arriva in visita il sovrano? La discussione interna al partito è agitata. I riformisti propongono che Filippetti si astenga da tutte le manifestazioni d’onore ma sia presente all’inaugurazione della Fiera, orgoglio del lavoro milanese: se si troverà davanti il Re, lo saluterà come saluta qualsiasi altra autorità. Ma prevalgono i massimalisti che non vogliono compromessi e vincolano il sindaco «a mantenersi completamenteassente» da tutte le occasioni pubbliche in cui comparirà il Re, evitando di incontrarlo. Il divieto non ammette deroghe, di nessun tipo. Si capisce così che Vittorio Emanuele, mentre si toglie il berretto militare in treno, abbia i suoi buoni motivi per partire da Milano soddisfatto per gli applausi, ma inquieto del rapporto non risolto con la politica, sia a destra che a sinistra.
È il sentimento dell’incompiuta che accompagna come un mal sottile tutto il regno dell’ultimo dei Savoia sul trono, e si prolungherà nella parentesi delRe di maggio. Ma adesso Umberto è ancora il principe ereditario, sottoposto a un’educazione sabauda al trono rigidamente militare nelle mani dell’ammiraglio di Squadra Attilio Bonaldi, col titolo onnipotente di “Governatore di Sua Altezza Reale”: ma anche opprimente, se alla fine il Principe di Piemonte non si presenterà al suo funerale. Elegante, mondano ma timido, popolare e religioso (quand’è a Torino va a messa al Cottolengo alle sette del mattino), Umberto deve fare i conti con la convinzione gelosa del padre che in casa Savoia “si regna uno per volta”, e viene dirottato su compitidecorativi di rappresentanza minore. Anche in quel mattino di aprile, col Re a Milano, l’erede a Firenze assiste alla messa nella cappella privata, poi visita la mostra della pittura del Seicento, quindi passa in rivista le truppe alla caserma di cavalleria: preparando intanto il viaggio di istruzione estiva sull’incrociatore “Ferruccio”, nave-scuola degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno, con l’addestramento al posto di manovra al timone, al combattimento coi cannoni, alla segnalazione in plancia, ai motori in sala macchine e infine alla prova del cibo, perché spetta a Sua Altezza Reale, in divisa da sergente dei granatieri, assaggiare i piatti destinati agli allievi prima di ogni pasto.
Tocca invece a Vittorio Emanuele riempire la scena istituzi onale del 1922, Capo per grazia di Dio e volontà della nazione di uno Stato che si frantuma venendo meno ai suoi impegni costituzionali, e giorno dopo giorno si arrende alla furia fascista che lo incalza per soppiantarlo. Il Re è solo, cresciuto senza amici, annoiato dai riti della Corte, invecchiato ad appena 53 anni nella separatezza del ruolo vissuto come un dovere dinastico, intristito da un’immagine fisica poco regale, coi giornali che lo scrutano a ogni uscita dal Palazzo registrando gli applausi del popolo, la “fede incrollabile” e il “buon sorriso”, ma anche il “volto ossuto”, i “capelli grigi”, il portamento di chi “si sente la corona in testa anche quando si fa la barba”.
A dire il vero ciò che il sovrano sente, è il declino monarchico in Europa. E infatti quando la rivoluzione del ’17 travolge lo Zar e una dinastia che regnava sulle Russie da tre secoli, Vittorio Emanuele ritorna a Roma dal fronte che aveva raggiunto allo scoppio della guerra, nominando luogotenente lo zio duca di Genova per muoversi tra i reparti, guadagnandosi sul campo la fama di “Re soldato”. È tormentato, soprattutto pessimista sul futuro che si annuncia, scettico sui destini reali. Nei cinque ultimi anni 26 famiglie coronate hanno dovuto rinunciare al trono. E proprio il primo giorno d’aprile, alle 12,18, è morto a Funchal l’ex imperatore austro-ungarico Carlo I d’Asburgo nella villa di un banchiere, assistito dalla moglie Zita, dalle due ultime due dame di Corte, da tre medici, mentre il vescovo è arrivato in ritardo per l’estrema unzione. Vittorio Emanuele legge i segni dell’epoca: il testamento che parla di due castelli austriaci, cinque polizze d’assicurazione, ma soprattutto di troppi debiti; le manifestazioni monarchiche a Vienna che si sono spente subito; la sepoltura imperiale, dopo l’imbalsamazione, nella tomba di famiglia di un borghese. L’Europa sembra disconoscere sempre più la maestà regale, come testimonia l’incredibile arresto di due borsaioli nascosti in una garitta nel bagagliaio del treno reale che riportava in patria i sovrani del Belgio dopo la visita a Roma.Davanti al potere declinante delle dinastie c’è in Italia l’impeto crescente, violento, del nuovo movimento fascista. È già un potere? E cosa vuole, come cresce, dove punta? Il Re non ama la politica, s’informa attraverso i suoi collaboratori più vicini, il primo aiutante di campo, generale Cittadini, il ministro della Real Casa, conte Mattioli Pasqualini, quando si presenta un problema chiede al presidente del Consiglio di proporgli una soluzione. È freddo con Giolitti, nonostante la lunga frequentazione. Più aperto, o forse solo meno intimidito, con Facta, che un giorno ha addirittura ammesso nella parte privata del palazzo, dentro i suoi appartamenti. Quanto al fascismo, lo ha osservato da lontano, prima con interesse per la capacità di imbrigliare i socialisti e disarmare i loro progetti ribelli, poi con diffidenza perché alieno, difficile da decifrare, impossibile da assimilare. Conosce il Duce, paradossalmente, più da socialista che da fascista. Durante la guerra, il sovrano era capitato per un’ispezione all’ospedale di Cividale, dov’era ricoverato per paratifo il giovane bersagliere Mussolini, e insieme con un generale si era fermato davanti al letto del malato, scoprendo che era il direttore delSe ne ricordò sei mesi dopo, quando in visita all’ospedale di Ronchi si ritrovò di fronte il sergente Mussolini nel secondo letto vicino alla finestra, febbricitante per l’estrazione delle schegge di un proiettile esploso durante un’esercitazione, e scambiò qualche parola con l’uomo che spesso nei suoi articoli aveva attaccato la monarchia. Quando il Re lo convoca per la prima volta al Quirinale nel giugno 1921 dopo le dimissioni di Giolitti, per le consultazioni, il Capo del fascismo si presenta in camicia nera. Un anno dopo, quando torna davanti al sovrano per la crisi del governo Bonomi indossa il “gibus” da viaggio, un cilindro di seta nera pieghevole, perfetto per il protocollo quirinalizio. A Milano si erano salutati velocemente in uno scambio occasionale tra il monarca e i deputati locali, mescolati con le autorità cittadine. Certo il Re in quel momento non poteva immaginare che soltanto un anno dopo avrebbe proposto a Mussolini il titolo di duca di Rodi, e più avanti addirittura la nomina a Principe, e che per vent’anni lo avrebbe incontrato ogni lunedì e giovedì alle 10 del mattino come Capo del governo.Adesso il sovrano – e non soltanto lui – si domandava che fine avessero fatto la vecchia anima mussoliniana che nel ’19 rivendicava ai Fasci appena fondati la “successione del regime”, lo spirito socialista antidinastico, la ripulsa fascista del trono che solo tre anni prima aveva spinto il Duce ad annunciare «noi non andremo a frugare negli archivi e non faremo il processo retrospettivo alla monarchia, ma fin da questo momento diciamo: repubblica!». Oggi è diverso: il Re è appena ripartito e il Duce sente il bisogno di chiarire che «se il fascismo non è repubblicano, non è nemmeno monarchico, ma subordina il proprio atteggiamento agli interessi materiali e morali della nazione». Agnosticismo istituzionale, dunque, o forse opportunismo costituzionale? Qualcosa di più. «Perchè Milano – si domanda Mussolini – ha accolto così festosamente il Re e lo ha salutato con grandi manifestazioni di simpatia? È difficile dosare gli elementi d’ordine psicologico che hanno spinto verso il Re masse imponenti di popolo. Ma quello che bisogna dire e ripetere è che il merito di questa situazione fortemente cambiata spetta in massima parte al fascismo che ha spezzato la tirannia rossa, ha fatto crollare gli idoli di creta e ha disperso gli eroi della rivoluzione». Dunque il fascismo ha compiuto la grande bonifica del Paese, secondo il Duce, e la corona ha potuto approfittare del nuovo spirito nazionale rafforzandosi sul trono. Il Re è avvertito, gli applausi non sono suoi, ma solo in prestito.Il monarca sembra spinto a un nuovo attivismo, sia pure silenzioso. Per tutto aprile, l’augusta presenza comparirà dovunque nell’Italia in fermento del 1922. Venerdì 21 a Firenze visita la Casa di rieducazione dei ciechi di guerra e poi visiona i lavori al monumento a Petrarca, mercoledì 26 arriva a Gaeta imbandierata, s’imbarca sulla real nave “Conte di Cavour” che lo porta a Reggio Calabria per sbarcarlo alle 8 di giovedì mattina a Messina, dove inaugura il memoriale alle regie guardie di finanza perite nel terremoto del 1908, con la benedizione dell’arcivescovo D’Arrigo. Venerdì il fischio delle sirene di tutti i piroscafi e gli urrà dei marinai schierati salutano la lancia reale che porta a terra Vittorio Emanuele atteso in caserma a Catania, dove consegna dieci medaglie d’argento e una di bronzo, prima di partire in treno per Taormina, dove la folla lo accoglie col lancio di fiori nel percorso verso l’hotel Excelsior, per il tè d’onore. Ovazione sabato sera al teatro greco di Siracusa, dove il Re in piedi risponde all’omaggio dei sedicimila spettatori, finché tre squilli di tromba riportano il silenzio e il buio per l’inizio delle “Baccanti”. Ma è Genova la grande ribalta mondiale che attende il sovrano, per la Conferenza Internazionale dove si riuniscono vincitori e vinti dell’ultima guerra, chiamati a ricostruire un’idea comune d’Europa dopo le rovine del conflitto. Dal mattino la folla si affaccia alle barriere di carabinieri e guardie regie a cavallo che circondano palazzo San Giorgio, per non perdere lo spettacolo dei Grandi del mondo che prendono posto nella storica Sala delle Compere dove adesso trova posto un enorme tavolo a ferro di cavallo che deve ospitare le delegazioni di 34 Stati, pronte ad ascoltare il discorso inaugurale del presidente del Consiglio Luigi Facta: «Qui si cancella il ricordo degli odi della guerra, qui non vi sono più amici e nemici, ma solo uomini e nazioni coscienti del dovere di condurre l’Europa verso il bene comune della pacifica coesistenza».Prima, la guardia era scattata sull’attenti per l’arrivo a palazzo di Sua Eccellenza monsignor Giosuè Signori, arcivescovo di Genova, seguito dal barone Hayashi e dal visconte Ishij, delegati giapponesi puntualissimi, poi dal capo della missione francese Louis Barthou e dal ministro degli esteri tedesco Walter Rathenau, dal Primo Ministro del Regno Unito David Lloyd George alle 14,53, e finalmente dal gruppo più atteso dalla curiosità occidentale, attirata dai segreti e dagli incubi della rivoluzione: sono i 45 membri della delegazione russa dei Soviet, 11 delegati e 34 tra periti, diplomatici, segretarie e assistenti, guidati da Georgij Vasil’evic Cicerin, Commissario del Popolo per gli affari esteri del governo bolscevico. La leggenda dell’Ottobre sovietico ha viaggiato con loro su un treno diretto che i ferrovieri italiani sono andati ad attendere a Innsbruck, per guidarlo verso la Liguria. Tre vetture speciali sorvegliate da un agente italiano ad ogni sportello e da guardie russe nei corridoi, anche se nessuno conosceva l’orario del convoglio misterioso e il governo aveva fatto filtrare la falsa notizia che sarebbe entrato in Italia da Chiasso mentre invece varcava il Brennero. “Il proletariato italiano saluta i delegati della Repubblica dei Soviet”, titolaL’Ordine Nuovogramsciano. I fotografi sembrano inquadrare soltanto i russi, li attendono alla stazione, li inseguono a Rapallo dove dormono alla vigilia per poi mostrarsi nel salone dell’Hotel Imperiale, con Maksim Maksimovic Litvinov, l’ambasciatore di Lenin prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, che addirittura si fa immortalare in mezzo a due carabinieri con lucerna a sciabola al fianco.Ma la star politica naturalmente è Cicerin. Ex menscevico, poliglotta, figlio di un diplomatico che è stato primo segretario a Torino dell’ambasciata russa nel regno di Sardegna, si muove perfettamente a suo agio mentre entra a palazzo San Giorgio in tight e bombetta. Quando parte un accenno di applauso, si volta al centro della delegazione che si apre a ventaglio, come se fosse già in posa per un dipinto del realismo socialista. Tutti guardano a lui, con le mille domande che circondano Mosca cinque anni dopo la cacciata dello Zar e lo sterminio della sua famiglia: cosa vuol dire la nomina di Josif Stalin a Segretario Generale del partito Comunista sovietico, avvenuta appena pochi giorni prima, il 3 aprile? E cosa nascondono le voci sulla malattia di Lenin, confermate anche dal professor Georg Klemperer, il famoso medico appena tornato in Germania dalla Russia? «La situazione non è preoccupante – dice Cicerin –. Vladimir Ilic soffre di un grave esaurimento, ma non c’è alcun principio di cancro». Tutta questa attenzione alla Russia, tra il mito e il mistero, probabilmente non piace a Mussolini che il 12 aprile entra a piedi giunti, da lontano, nel confronto diplomatico della Conferenza. «Dei due mondi fino a ieri l’un contro l’altro armati, chi si è arreso, chi ha capitolato? Il comunismo. La vera grande Canossa del bolscevismo è contenuta nel discorso funebre del ministro Cicerin, che ha portato sul tavolo del palazzo San Giorgio il corpo ormai disfatto dell’immensa Russia e ha detto: signori, la Russia è a vostra disposizione, è all’asta. Spartitevela tra di voi».Ma dopo il conflitto, la speranza del dialogo guarda a Genova come alla città-frontiera tra due epoche, tra la guerra e la pace. Il Papa impartisce da Roma la sua benedizione sui lavori, ricordando che «la vera pace consiste nella riconciliazione degli animi, e non soltanto nella cessazione delle ostilità»; John Maynard Keynes spiega che dalla Conferenza non arriverà “clangore di trombe” per leader “cinti di porpora imperiale”, ma indica gli obiettivi possibili in un’unione monetaria per ristabilire lo standard dell’oro, un accordo sulle dogane, un trattato commerciale per ristabilire gli scambi con la Russia; Luigi Einaudi va oltre, e chiede che venga ricostituita “l’unità spirituale d’Europa”. Forse il vertice europeo era stato convocato troppo presto per produrre risultati: ma è a Genova che si cuce la trama del trattato di Rapallo, siglato subito dopo la fine della Conferenza da Rathenau e Cicerin per risolvere le pendenze e ristabilire i rapporti tra Russia e Germania.Sotto il cielo coperto, alle 8,40 di sabato 22 aprile la corazzata “Cavour” entra nel porto, dove tutte le navi hanno innalzato il gran pavese, e si ormeggia al molo Paleocapa. Tutte le campane della città suonano a festa quando alle 11 il Re sbarca per salire sulla “Dante Alighieri” dove ha invitato a pranzo i delegati delle 34 nazioni, tra piante di bambù, vasi di fiori, festoni tricolori. Tre grandi tavoli sono pronti in coperta, quello centrale ospita il sovrano che avrà di fronte il presidente del Consiglio Facta, alla sua destra Lloyd George, a sinistra Barthou. Ma il Capo Cerimoniere, commendator Depretis, sta annunciando l’arrivo del «signor Giorgio Cicerin, membro del comitato centrale esecutivo panrusso e Commissario del popolo agli affari esteri». “Ne ho piacere”, dice il Re, con una stretta di mano. Tutti guardano i bolscevichi al banchetto di Sua Maestà («consumato alla finanziera – dice il menu in italiano –, orata alla genovese, medaglioni di vitello alla primavera, faraona arrosto e insalata all’italiana, gelati Regina Elena e sfogliatine, frutta e caffè, liquore Strega») impeccabili in dorsay da cerimonia e guanti grigi, con Cicerin che ha un cenno d’inchino col capo quando Vittorio Emanuele cerca di capire se c’è qualche radice italiana nel suo nome di famiglia. Si conversa in francese, inglese e italiano e appena il sovrano lascia la “Dante” l’inviato di Lenin pronuncia l’impossibile: «È un Re che potrebbe anche presiedere dei Soviet».Troppo zelo? Sembra pensarlo la Francia, dove ilJournalpubblica una parodia feroce del ricevimento regale, fino all’accusa implicita di soggezione e ambiguità italiana nei confronti dell’ospite rivoluzionario, col sovrano che dimentica di essere “cugino” dello Zar assassinato dai bolscevichi: anche se la Regina Elena appena un mese prima aveva assistito nella chiesa russa di Sanremo a una messa di requiem in suffragio di Nikolaij II, e da Roma era arrivata una corona di fiori del Re. Un altro attacco viene dai comunisti italiani, sull’OrdineNuovo:«Salotto lucido, e cucina lurida; colletto di gomma e niente camicia. Mentre a Genova un piccolo Re e ventimila sbirri inscenano per l’estero la commedia dell’ordine e della pace, sbirri e fascisti assediano a distanza la Liguria in un cerchio di terrore. A Torino una spedizione fascista martella di revolverate la Camera del Lavoro; a Milano la polizia chiude i circoli comunisti; in tutto il Piemonte e la Lombardia è all’opera il bastone».È il demone della violenza squadrista che era stato tenuto sotto controllo prima della Conferenza e ora torna ad agire. Torino esattamente un anno prima ha subito lo sfregio dell’incendio della Camera del lavoro, presa d’assalto dalle camicie nere che aggrediscono a pugnalate il custode Pleitavino alle quattro e mezza di notte, rompono i lucernari, frantumano i lampadari, spargono la benzina sui registri e nell’incendio del palazzo bruciano la memoria operaia della città. Adesso i fascisti commemorano un loro camerata, Amos Maramotti, che in quell’assalto rimase ucciso da una fucilata mentre scavalcava il muro di cinta. Tornano in corso Siccardi 12, la centrale dell’Ago, l’associazione generale degli operai, la centrale politico-sindacale della sinistra torinese, e sparano dieci colpi di rivoltella dall’ingresso della birreria verso l’interno, a altezza d’uomo. Lo stesso giorno a Sarzana 100 squadristi armati di randelli, protetti dalla guardie regie, “ispezionano” la città bastonando gli avversari, in un raid sanguinoso. A Bergamo il socialista Cesare Silvani viene trovato agonizzante dai carabinieri alle due di notte per strada, con la testa squarciata da una manganellata. Muore per la frattura del cranio anche un giovane iscritto al Psi di Arezzo, Federico Puri, a Montecatini è freddato a colpi di pistola Sestilio Campioni, muratore anarchico, a Milano tre ragazzi del gruppo cattolico “Cardinal Ferrari” sono aggrediti a randellate mentre stanno andando a una processione. Le “ispezioni”, con perquisizioni, sequestro di tessere di partito, somministrazione di olio di ricino sono l’ultima tecnica della sopraffazione di un antistato che soppianta lo Stato legale, libero di spadroneggiare. Alle undici di sabato sera in via Nazionale a Roma, un giovane che cammina dietro al direttore dell’Avanti! Serrati lo supera all’angolo di palazzo Aldobrandini, e gli lancia sul viso un involto pieno di sterco.Il Re vede questo degrado finale della lotta politica, col fascismo che si nutre della crisi italiana di cui è figlio. Ma il Quirinale tace. Più che controllare le manovre di Mussolini in piazza, Vittorio Emanuele scruta le mosse di suo cugino Emanuele Filiberto d’Aosta, nel palazzo. Soffre le voci che da almeno tre anni accarezzano l’ipotesi che il duca prenda il suo posto sul trono. Ipotesi che D’Annunzio liquida subito, spiegando che la monarchia in Italia è come certe case a Messina, con la facciata intatta e dentro la rovina: «Inutile sostituire il Re col duca, sono due imbecilli». Ma il sovrano riceve continuamente segnalazioni sulle ambizioni del cugino e soprattutto della moglie, Elena d’Orleans, e presto si accorge che hanno incominciato a cavalcare l’onda fascista, frequentando i ras locali. Nella sua prudenza sospettosa questa insidia concorrente all’interno del suo stesso casato lo destabilizza, e non riesce a nascondere alla Corte il suo vero punto debole: l’ombra domestica del duca, che gli viene segnalato un giorno nelle fotografie in cui marcia dietro il mazziere in mantello nero e cilindro nel corteo di Cambridge, una sera tra gli applausi della Mostra Coloniale, dove si ferma a sorseggiare un caffè alla turca, un pomeriggio a Merano mentre passa in rassegna un manipolo squadrista, un martedì a Torino quando entra all’ospedale Mauriziano per confortare l’onorevole Cesare Maria De Vecchi, Capo del fascismo piemontese, operato pochi giorni prima e riconoscente.Man mano che il fascismo diventa una forza d’urto dentro lo Stato, il Re avverte che la marea crescente arriva fino a Corte, lambisce i suoi due più stretti dignitari, il primo aiutante di campo e il ministro della Real Casa, cattura Margherita la Regina Madre, e conquista gli Aosta. Lo sperimenta Francesco Saverio Nitti nei suoi dodici mesi passati alla guida del governo: «Il contegno degli Aosta era scorretto e deplorevole e il Re me ne parlava spesso con diffidenza. La duchessa fece addirittura la ridicola commedia di andare a Fiume a piangere vicino al cadavere di un legionario ucciso. Quando tornò a Roma giunsi a minacciarla in forma dura e severa di gravi provvedimenti. Di ciò riferii subito al Re, che volle la Regina assistesse al colloquio. Da allora il Re mi chiese di far sorvegliare il duca e la duchessa d’Aosta e volle che lo tenessi sempre informato di tutti i loro atti».Dov’era nata quella sovrana inquietudine? Ormai era difficile dirlo. Ma quella sera alla Scala, mentre Arturo Toscanini dirigeva l’orchestra nelMefistofeleVittorio Emanuele III sentì la scommessa tra Dio e il demonio arrivare fin davanti al palco reale con la musica che annuncia la sventura, mentre le orme di fuoco nella notte fatale del sabba s’avvicinano sempre più. E quelle parole, come una minaccia o peggio, un presagio: «È la fanfara della morte, sta l’inferno a quelle porte». Poi un ultimo avvertimento: «Dei neri puledri già sento il nitrir, è d’uopo fuggir, è d’uopo fuggir».