Corriere della Sera, 27 aprile 2022
Intervista a Vittorio Cecchi Gori
«Parafrasando una pellicola che ho prodotto io, spero che questi siano “i miei primi 80 anni”». Vittorio Cecchi Gori sa ancora ridere, nonostante gli acciacchi dell’età e i dispiaceri di una vita che definisce da film. Il compleanno è oggi, 27 aprile. A gennaio era stato ricoverato, scontava ancora ai domiciliari un cumulo di pena definitivo di otto anni e cinque mesi per il crac della Safin cinematografica e della Fiorentina, pena poi sospesa per motivi di salute: «Il cuore ha fatto i capricci. Ora ho il fiato corto, posso fare tutto, ma da seduto». Nella casa ai Parioli che fu dei genitori, guarda Roma dalle vetrate: «Purtroppo, qualche agevolazione l’ho avuta, ma era meglio non averla, perché dipende dalle mie condizioni di salute». I guai giudiziari hanno azzerato un impero fatto di cinema, televisione, calcio. Chiedo: che errori si riconosce? «Avevo un ruolo in 48 società, qualcosa mi è sfuggito, ma non mi sono accorto di aver fatto niente di male, quel che è successo non lo so dire tuttora». Sospira: «Spero solo che il presidente Sergio Mattarella, così equanime e sereno, mi conceda l’onore della grazia». Buona parte del nostro cinema l’ha prodotta Vittorio Cecchi Gori, in principio con il papà Mario.
Primo set?
«Napoletani a Milano. Lo girammo nel ’52, avevo dieci anni. Eduardo De Filippo mi fece sedere sulle sue gambe. Brontolai: babbo, ha le ginocchia ossute».
L’ultimo set?
«Silence di Martin Scorsese, nel 2015. Di Scorsese ho coprodotto anche The Irishman, con Robert De Niro e Al Pacino, ma non sono potuto andare, stavo male. Con l’America ho continuato a lavorare perché lì le mie società non sono state coinvolte dal fallimento. Tuttora gli americani mi sollecitano a fare altro. Ho pronta la sceneggiatura del remake del Sorpasso, col figlio di Dino Risi, Marco, e magari con Alessandro Gassman, al quale però non va molto. Sono nella giuria degli Oscar, sento gli altri giurati, i remake vanno di moda. Devo solo stare bene, riprendere a muovermi. Un bel film vorrei ancora farlo».
Quanto le manca produrre?
«Io con la testa produco sempre. Tutto quello che vedo, nella mia testa, diventa un film. Oggi, mi sono svegliato pensando a Carlo Verdone, vorrei fare il remake di Io e mia sorella».
Verdone, Risi, Benigni, Pieraccioni, Tornatore hanno partecipato al docufilm del 2019 «Cecchi: Gori una famiglia italiana». I suoi registi le sono rimasti vicino?
«Io a loro voglio bene e credo che loro ne vogliano a me».
Il primo film dove ebbe un grosso ruolo?
«Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, del 1970. E...Altrimenti ci arrabbiamo fu un’intuizione mia. Mio padre non l’aveva capito: tutti dicevano che Bud Spencer e Terence Hill senza gli spaghetti western non li avrebbe visti nessuno. Prima, papà non mi aveva mai fatto un complimento. Tanti gli dicevano: digli una volta che è bravo. E lui: che, siete matti? dopo, non lo controllo più! Anche l’ultimo film di Federico Fellini volli farlo io, ci tenevo a fare esperienza coi grandi. Resta famosa la battuta di Fellini a mio padre: tu ti sei sempre salvato, ci voleva tuo figlio per farmi fare un film con la Cecchi Gori».
Vedere il suo nome nella società di famiglia che soddisfazione fu?
«La devo a Sergio Corbucci e Monica Vitti, con Non ti conosco più amore, anno 1980. Con Monica siamo stati amici, quanti film insieme...».
Quanti film ha fatto in tutto?
«Anche 90 all’anno fra prodotti e distribuiti. Preferisco ancora i film alle serie: un film bello messo in tv non ha rivali. Ho rivisto Mediterraneo di Gabriele Salvatores, è ancora attuale».
È fra i tre Oscar che tiene nella libreria, assieme al «Postino» e alla «Vita è bella».
«Lo vinsi nel mio momento d’oro in America, dove avevo casa e credibilità. Fui bravo a promuovere il film. Purtroppo lasciai Los Angeles: troppo faticoso fare avanti e indietro. Donald Trump mi diceva di rimanere, forse sbagliai».
Era amico di Trump?
«Avevo comprato casa da lui a New York, attico e superattico su Central Park, come stare sospesi in mongolfiera, poi l’ho persa nei casini miei. Abbiamo fatto amicizia, era debordante, ma era un uomo semplice, capiva tutto al volo».
Altri incontri memorabili?
«Gabriel García Márquez. Eravamo amici, gli portai a Città del Messico Tornatore che voleva fare il film da Cent’anni di solitudine, ma i due non si presero. Poi, lui mi fece invitare da Fidel Castro a fare lezioni di cinema a L’Avana. Gabriel era simpaticissimo. I grandi hanno anche una semplicità quotidiana che li rende magnifici».
Altri grandi sorprendentemente semplici?
«Bill Gates venne a prendermi con la moglie in giardinetta».
Che ci faceva lei con Bill Gates?
«Lo conobbi alla Sun Valley Conference».
La cosiddetta «conferenza dei billionaire»?
«Ci andai per tre anni. Lavoravo a una piattaforma europea di contenuti a pagamento, molto prima che arrivassero Netflix e simili. Non essendo all’altezza come vedute tecniche, mi preoccupavo che gli schermi su cui si vedesse fossero grandi come quelli dei televisori. Con me e i Gates c’era il capo della Warner. Io dicevo: non ci credo che uno vede un film nel telefonino».
Gates, invece, ci credeva già?
«Era più avanti. Io, poi, sono stato messo fuori gioco per via giudiziaria».
In una conferenza stampa disse: «L’ordine è farmi fuori». Chi mai voleva farla fuori?
«Col passare del tempo, le cose si sono precisate. Avevo Tmc, stavo creando il terzo polo tv, avevo una quota di quella che sarebbe diventata Sky, una library di film sterminata e una squadra di calcio, per cui avevo capito l’importanza dei diritti tv di cinema e calcio. Successe, invece, una lotta con la tv generalista. Mi hanno portato via tutto, per un errore minimo rispetto alla vastità di ciò che amministravo. Ma tante vicende sono aperte e qualcosa conto di recuperare».
Come le venne in mente di dire che la cocaina che le trovarono in casa era zafferano?
«Chi lo sa? Certo non pensavo che sarei rimasto nella storia per la battuta sulla zafferano».
Degli altri due premi Oscar che ricorda?
«Benigni e Massimo Troisi erano meravigliosi, si volevano bene. Li misi io insieme in Non ci resta che piangere. Volevano sfondare entrambi in America: con Roberto ci riuscimmo, con Massimo pure, ma lui non fece in tempo a vederlo».
Morì appena finite le riprese del «Postino».
«Aveva la mentalità napoletana di De Filippo: lo spettacolo continua. Quando capì che si doveva operare al cuore, non lo disse, non si operò e volle continuare il film. Una sera, io e Verdone lo invitammo a cena e non volle venire per finire di doppiare. Il giorno dopo, se n’è andato».
Nel docufilm, Benigni racconta che, quando le spiegò il soggetto di «Johnny Stecchino», si impegnò, glielo mimò, ma lei dormì tutto il tempo. Poi, aprì gli occhi e gli disse cosa andava cambiato in ogni scena.
«Succedeva quando vivevo a Los Angeles e, con nove ore di jet lag, ero sempre stanco. Avevo affinato una tecnica per cui ascoltavo socchiudendo gli occhi e sembrava che dormissi».
Un grande a cui è stato molto legato?
«Vittorio Gassman è stato un secondo padre, gli stavo sempre attaccato. Andavamo a giocare a tennis, di qua, di là. In America ho avuto una grande amicizia con Jack Nicholson. Man Trouble doveva farlo con Meryl Streep. Lei venne a trovarmi, molto impaurita, per dirmi che era incinta. Io stappai lo champagne per festeggiarla. Meryl lo raccontò a tutti facendomi diventare noto e simpatico a tutta Los Angeles».
Diceva che la sua vita è un film. Il colpo di scena più bello?
«Il più simpatico è quando mi sposai con Rita Rusic: avevo per testimoni Verdone e Enrico Montesano. Mentre il prete celebrava, li vidi impettiti nei vestiti blu e mi venne in mente di fargli fare un film intitolato I due carabinieri. Glielo dissi, lì, mentre mi sposavo. Fu un successo».
Prima, i giornali rosa la descrivevano come «play boy che colleziona attrici, Maria Grazia Buccella, Maria Giovanna Elmi...».
«Playboy è chi nella vita fa solo quello. Io lavoravo. E lavorando conoscevo attrici. Maria Grazia è stato il mio grande amore, finì perché eravamo giovani, ma siamo ancora amici. A Natale 2017, fu lei a portarmi in ospedale con l’infarto».
Ornella Muti?
«Mi piaceva tanto. Mamma disse: ho capito che vuoi sposare un’attrice, sposa lei, è simpatica, è bellina. Ma ci lasciammo, fu una delusione: avrei voluto che finisse in un’altra maniera».
Davvero di Rita Rusic suo padre disse: quella il mi’ figliolo se lo ficca in saccoccia?
«Ero figlio unico, avevo 40 anni, consideri la frase in quel contesto. Io volevo sposarmi, mica potevo seguitare a far che? Ho messo su famiglia, abbiamo due figli straordinari, Mario si è laureato in Economia in America, Vittoria ha negozi a Miami. Il matrimonio è durato 20 anni».
Le cronache riportano che finì fra risse e tentativi di strangolamento reciproco.
«Quando le persone sono note il gossip è inevitabile e mi dispiace. Io non porto rancore a nessuno, io e Rita abbiamo un buon rapporto».
Le dava fastidio quando si dice che era stata lei a scoprire Pieraccioni o Panariello?
«L’ho messa io nella produzione. Aveva fatto una parte in Attila flagello di Dio, ma fare l’attrice non era la strada giusta per la moglie di un produttore. Le dissi: dammi una mano con la società. E lei ha imparato».
Valeria Marini, cinque anni insieme.
«Fu una bella storia, un po’ faticosa. Veniva a dormire alle sei del mattino perché aveva fatto una serata dall’altra parte dell’emisfero».
Ora ha una compagna?
«Sono solo, ormai. Ho qualche amica. A 80 anni, ho più bisogno di amicizia: non è che mi metto a fare l’imitazione di me stesso».