il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2022
Il gas kazako e i diritti di transito alla Russia
Novorossijsk, Federazione Russa. I dati sulle importazioni italiane dicono che negli ultimi due mesi, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, dal porto di questa città sul Mar Nero è arrivata buona parte del petrolio usato in Italia. Migliaia di tonnellate di greggio scaricate ad Augusta, Livorno, Milazzo, Ravenna, Sarroch, Siracusa, Trieste, Venezia. Eppure Eni, da sempre il principale acquirente italiano di petrolio russo, a inizio marzo aveva annunciato di voler interrompere le importazioni da Mosca. Perché allora in Italia continuano ad arrivare barili provenienti dalla Russia?
Una spiegazione è stata fornita dalla stessa azienda di Stato italiana al Quotidiano Nazionale, che a inizio aprile aveva segnalato un carico di greggio, proveniente da Novorossijsk, in arrivo alla raffineria Eni di Livorno: “Si tratta di un prodotto proveniente non dalla Russia, ma dal vicino Kazakistan”. La precisazione nasconde un paradosso che rischia di sterilizzare in parte gli effetti del possibile embargo sul petrolio russo, quello che l’Ue si appresta a varare nel sesto pacchetto di sanzioni. Il Kazakistan potrebbe infatti diventare per Mosca una scappatoia per aggirare il divieto di esportare greggio in Occidente, o perlomeno per attenuarne gli effetti. L’enorme Paese dell’Asia centrale, che a gennaio ha soffocato le proteste di piazza con l’aiuto dei militari di Mosca, è il dodicesimo produttore di petrolio al mondo (dati Iea). Nei suoi giacimenti di Tengiz, Kashagan e Karachaganak hanno investito diverse compagnie occidentali: le americane Chevron ed ExxonMobil, l’anglo-olandese Shell, la francese Total ed Eni, per la quale il Kazakistan è il Paese con le maggiori riserve di idrocarburi al mondo. Oltre due terzi del petrolio esportato passa attraverso il Ctc, l’oleodotto che dal Mar Caspio arriva a Novorossijsk, in Russia, dove il greggio viene caricato sulle navi destinate ai vari porti del mondo, compresi quelli italiani. L’infrastruttura è controllata dal Caspian Pipeline Consortium. Ed è proprio grazie alla compagine azionaria di questo consorzio che si spiega il paradosso. Tra gli azionisti principali ci sono infatti le americane Chevron (15%) ed ExxonMobil (7,5%), l’azienda di Stato kazaka KazMunaygaz (19%), ma il controllo è saldamente in mano al Cremlino. La Russia detiene infatti il 24% delle quote attraverso Transeft, che arrivano al 44% sommando le partecipazioni di Lukoil (12,5%) e Rosneft (7,5%).
Il risultato è che per importare in Italia petrolio kazako, Eni – così come qualsiasi altra compagnia – deve pagare i diritti di transito al Caspian Pipeline Consortium, cioè soprattutto alla Russia. Il consorzio non divulga i dati di bilancio. Alle domande del Fatto, la società basata a Mosca si è limitata a rispondere che “oltre 1,2 miliardi di dollari di dividendi sono stati pagati nel 2021 agli azionisti”. Significa che l’anno scorso sono finiti in Russia (44% delle quote) almeno 528 milioni di dollari. Per questo motivo, anche se alla fine l’Ue dovesse decidere di mettere sotto embargo il greggio di Mosca (lunedì Josep Borrell, alto rappresentante agli Affari esteri dell’Ue, ha detto che non c’è “ancora l’unanimità”), Putin non resterà a bocca asciutta.
Per risolvere il problema bisognerebbe vietare gli acquisti del petrolio che passa attraverso l’oleodotto Cpc, ma farlo significherebbe infliggere perdite rilevanti alle compagnie che estraggono in Kazakistan. Non a caso gli Usa, che già da marzo hanno vietato le importazioni di greggio russo, hanno escluso dall’embargo quello trasportato via Russia attraverso il Ctc. Questo petrolio, ha spiegato il Dipartimento del Tesoro, “è prevalentemente di origine kazaka”. L’avverbio usato nasconde un altro dilemma. L’oleodotto, dice il consorzio che lo controlla, trasporta “anche greggio proveniente da produttori russi”. Circa il 20% del petrolio veicolato attraverso il Ctc arricchisce infatti società della Federazione. E non sono spiccioli, dato che il tubo può trasportare 1,3 milioni di barili al giorno. Insomma, il divieto europeo di importare greggio russo farebbe perdere sicuramente un mucchio di soldi al Cremlino – secondo l’Ong Transport&environment, la Russia nel 2021 ha incassato da Ue e Regno Unito 104 miliardi di dollari per il proprio petrolio – ma per azzerare le entrate del Cremlino, l’Occidente dovrebbe sacrificare parte dei profitti delle proprie compagnie. Gli Usa finora non sono stati disposti a farlo. Vedremo l’Ue.