Ultimo è l’artista più giovane di sempre a esibirsi negli stadi: aveva solo 23 anni quando, nell’estate del 2019, fece sold out all’Olimpico di Roma, pronto a partire per un grande tour. Il Covid ha fermato tutto, ora finalmente si ricomincia. Per raccogliere i frutti di un’avventura iniziata cinque anni fa, sul palco di Sanremo Giovani, segnata nel frattempo da 51 dischi di platino, 15 dischi d’oro, centinaia di milioni di visualizzazioni e l’amore di milioni di fan.
Partiamo da una domanda scontata: che vuol dire per lei tornare in concerto oggi?
«È una domanda scontata ma essenziale. È il punto centrale. Siamo stati chiusi a lungo, io sono rimasto in casa in un momento cruciale della mia carriera. Con il tour negli stadi avevo l’opportunità di raggiungere l’obiettivo per me più importante, invece è tutto saltato. Pensi cosa vuol dire per un ragazzo di vent’anni, nel pieno di una corsa, sentirsi dire “fermati e poi capiamo”. È stato qualcosa di più di far saltare qualche concerto. Non sto recriminando, è stata una situazione tragica per tutto il Paese e il mio “problema” è ovviamente poca cosa. Ma è la mia vita, non essere sul palco è non vivere: io sento di esistere nel momento in cui le persone cantano insieme a me le cose che ho scritto, se mi togli questo mi togli il senso della vita. Non vado sul palco a fare la star né a fare il fico ma per fare qualcosa per e con la gente. Faccio dischi per poterli cantare alla gente e perché la gente li canti a me».
Ora tutto ritrova un senso.
«Sì, e non vedo l’ora che accada. Ci tengo a dirlo: fare dischi è bello e importante, ma il concerto è un rito comunitario, artista e pubblico diventano una cosa sola. Condividi le emozioni, le gioie, i dolori, gli amori, ogni canzone esiste davvero perché la canti con gli altri, perché non dobbiamo più sentirci soli. Mettiamo in comune emozioni e sensazioni, anche la tristezza. Ha notato che ai concerti spesso la gente piange ridendo? Perché tutto si fonde e se stai male, ma puoi dirlo e condividerlo, diventa una magia».
Quanto l’hanno cambiata questi due anni?
«La pandemia è stata un’esperienza strana, tragica per tutti, che avremmo preferito non vivere. Ho ragionato su tante cose, ho avuto modo anche di metabolizzare il successo, che per me è stata un’onda enorme e rapida, che ha tante facce belle e brutte e rischia di cambiarti. Ma il successo è quello che viene dopo, è riuscire a essere migliore dopo il boom, continuare a parlare con la gente. Dal 2017, quando ho iniziato questo percorso, è passato un anno e mezzo prima del boom, tutto si è accelerato e poi improvvisamente fermato. Sono passati cinque anni, più o meno, e so che non è più come all’inizio. Prima volevo arrivare alla gente, ora voglio fare cose che rimangano. Credo che le persone percepiscano se uno scrive una cosa per il successo o se cerca di fare un percorso per durare nel tempo. Sono cambiato, dunque?
Credo di sì, fare hit single è bello e rispettabile, ma a me interessa altro: che le persone capiscano quello che faccio e vengano ai miei concerti per avere qualcosa di più».
Nell’isolamento è cambiato anche il suo modo di scrivere?
«Certo, un conto è scrivere quando tutto corre, in viaggio, in albergo, sapendo che devo partire, con l’adrenalina, le vibrazioni, gli eventi. Altro è stare da solo in una stanza, con il pianoforte e il letto, senza alcuna pressione, positiva o negativa. Credo che sia cambiato il mio approccio, la scrittura cambia con la prospettiva di vita».
Quindi una parte della sua rabbia giovanile si è persa?
«Credo di no, scrivo ancora portandomi dentro quel senso di rivalsa contro chi non mi stava a sentire. Ce l’ho sempre, mi spinge a scrivere senza appoggiarmi a niente».
L’isolamento, la pandemia, l’hanno portata a scrivere di più?
«Non sono uno che crede che quando si sta male si scriva di più, non ho l’atteggiamento dell’artista sofferente che scrive alle tre di mattina, anzi. Io mi sveglio alle cinque di mattina e vado a dormire alle nove, il contrario della rockstar. L’artista scrive quando ha un bilanciamento interiore, va bene aver sofferto ma la sofferenza dev’essere un bagaglio che usi per scrivere. Se sto male sto male e basta, non mi metto al pianoforte».
Possiamo comunque dire che Ultimo è cresciuto?
«Direi di sì, anche senza viaggi o concerti. La crescita è un’attitudine interiore, non importa quello che fai ma quello che vuoi fare e vuoi essere, soprattutto in questo mestiere. Grandi artisti come Ed Sheeran sono grandi solo con una voce e una chitarra, ci sono geni che registrano in un camper. Spero che la mia crescita avvenga per quello che provo, al di là di dove sono».
Che progetti ci sono per il futuro?
«A essere sincero, adesso non so che strada prendere. Dopo Solo la mia mente si è concentrata sul tornare a suonare live. Non ho altre scadenze. Ho fatto uscire Solo perché volevo farlo e anche per il prossimo disco sarà lo stesso, quando sentirò di doverlo fare lo farò. Voglio che sia sempre così: far uscire canzoni solo quando ho qualcosa da dire. Sennò, è meglio niente».