la Repubblica, 26 aprile 2022
Intervista a Carlo Lucarelli
«Il noir non può morire». Carlo Lucarelli ne è certo. Risponde subito, senza esitazioni, anche se questa volta a mettere in dubbio lo stato di salute di uno dei generi più venduti, è Loriano Macchiavelli, gran maestro del giallo italiano. Dal suo buen retiro nell’appennino modenese, intervistato da Giancarlo De Cataldo su Repubblica , lo scrittore ne ha intravisto la fine. E proprio nel momento della sua massima affermazione commerciale. Le migliaia di libri, serie tv, film polizieschi che tutti noi consumiamo, per lui sono solo nebbia, un artificio che distrae la mente ma non attacca il potere, non turba l’ordine costituito, non inquieta.
Lucarelli, che a dirlo sia Macchiavelli, fa paura.
«Non c’è dubbio, anche perché non è semplicemente un decano o un maestro. È il padre del giallo italiano. Detto questo, credo che le sue parole vadano interpretate. È vero che l’esplosione di questo codice narrativo ha generato una certa ripetitività ma non sono per nulla preoccupato. La penso come il mio barbiere».
Il suo barbiere?
«Una specie di filosofo. Un giorno un collega aprì una bottega poco distante dalla sua e io gli chiesi se fosse preoccupato, se temesse di perdere clienti. Rispose di no: ‘Siamo tutti bravi e c’è spazio per tutti’. Ecco, la penso esattamente come lui, il noir ha mille sfumature e c’è spazio per tutti. Per chi scrive gialli induttivi, che con l’arresto dell’assassino e la risoluzione del mistero ristabiliscono l’ordine infranto, per chi scrive libri di puro intrattenimento che leggi tutto di un fiato una notte e poi dimentichi il giorno dopo, per chi scrive noir inquietanti che criticano società e politica, che analizzano la devianza, raccontano dinamiche criminali sommerse, mettono in scena l’anima nera dell’uomo. È bellissimo che il lettore abbia una così ampia possibilità di scelta».
Tanta abbondanza può rivelarsi un boomerang. Il mercato non rischia di addomesticare il genere?
«Se guardando in giro ti soffermi su quello che non vuole essere disturbante hai questa percezione.
Ma poi, andando più in profondità, incontri scrittori che non fanno sconti a nessuno. Macchiavelli non è consolatorio. Massimo Carlotto e Gianni Biondillo non lo sono. Potrei fare un elenco, mi ci metto anche io e un sacco di autori di generazioni diverse, anche giovani come Piergiorgio Pulixi e giovanissimi che stanno sperimentando. Le loro storie non hanno il lieto fine e anche quando l’assassino finisce in manette il lettore si accorge che forse non era lui il più cattivo. O che tutta quella cattiveria non era lì per caso».
Uccidere il noir è dunque impossibile?
«Nella storia è accaduto solo quando è stato censurato. Ma anche in quel caso non è stato ucciso, è scomparso per poi riaffiorare. Per quanto qualcuno provi ad addomesticarlo ci sarà sempre chi resiste, magari da carbonaro. Prima di essere un genere, è un istinto. È così da sempre: sono sicuro che anche nelle caverne, l’uomo iniziava le sue storie narrando che là fuori, nel buio, qualcosa si muove».
Cosa raccontano i noir oggi?
«Le contraddizioni e la metà oscura della società: i meccanismi del potere, la corruzione, i ricatti, gli omicidi, la mafia e la mafiosità… Tutte cose che i giornali investigano, ma che noi mettiamo in scena.
Raccontiamo un mondo e poi facciamo entrare in azione un tipo che fa cose orribili e nel farlo mostra ciò che accade nella sua mente e attorno a lui. La stampa non può farlo, il suo compito è altro, si deve fermare ai fatti. Gli scrittori invece hanno una libertà assoluta: un romanzo è una ipotesi possibile, probabile, della realtà, una sua rappresentazione».
Che nasce da cosa?
«Dalla sensibilità dello scrittore, dalle sue intuizioni o ossessioni, da ciò che legge. Succede qualcosa nel mondo, ne vieni turbato e cominci a pensare: “Come è possibile?” Una decina di anni fa percepivo attorno a me una grande incertezza e una rabbia tremenda, assoluta. Cercai di metterla in scena e così nacque Il sogno di volare , l’indagine dell’ispettrice Grazia Negri su un assassino che di fronte all’ingiustizia decide di farsi giustizia da sé. Mi è accaduto qualcosa di simile anche con l’immigrazione clandestina e credo che accada a molti altri colleghi».
In questo nostro tempo non mancano i motivi di inquietudine: la pandemia, la crisi climatica e ora una guerra in Europa.
«E il noir può essere una chiave di accesso. Penso a Petros Markaris: se vuoi capire la crisi economica della Grecia lo devi leggere. Penso ai romanzi che raccontano il narcotraffico e la criminalità organizzata o a quelli che arrivano dal Nord Europa. Una volta certe terre ci richiamavano alla mente Babbo Natale e la Sirenetta, poi abbiamo iniziato a leggere i loro noir, scoprendo che anche tra i ghiacci non andava tutto bene. Vale per qualunque angolo del mondo. Dal Mali, ad esempio, stanno arrivando storie che ci permettono di entrare nel cuore dell’Africa e delle sue tragedie».
Da lettore dove vorrebbe che la portasse il noir oggi?
«A Mosca. Vorrei leggere un collega della Federazione Russa politicamente scorretto, che metta in scena il lato oscuro di quel mondo».
La guerra la sta influenzando?
«Come tutti osservo sconcertato quello che sta accadendo in Ucraina e l’inquietudine si riflette nel mio lavoro. Sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1940, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, e mi accorgo di attingere al presente: il nostro mondo è tornato a parlare di armi, vittime, confini, strategie militari, propaganda. Mi sento vicino ai miei personaggi, respiro la stessa incertezza dell’epoca e tutto questo finisce per influenzare i loro pensieri, emozioni e modo di agire. Non c’è scampo: la paura fa parte dell’uomo, così come l’istinto a metterla in scena. Per questo non sono preoccupato: il noir resisterà».