La Stampa, 26 aprile 2022
Intervista a Giuliano Montaldo
Sa come si chiamano i ministri di Putin? Puttanieri!» È una delle poche battute che si concede Giuliano Montaldo, 92 anni, regista, autore di "L’Agnese va a morire", il primo film sulle staffette partigiane. Oggi confessa la sua tristezza per un tempo cupo che non avrebbe mai pensato di rivivere.
Prima ancora di diventare un regista e un attore è stato innanzitutto un partigiano.
«Ero un ragazzo, ho conosciuto i gruppi partigiani in città e mi sono buttato in mezzo a loro. Avevo 15 anni ma ne dimostravo 18, ero un po’ fuori di testa, un incosciente. Ogni tanto mi afferravano e mi frenavano. Mi sono anche ferito da solo perché avevo fissato male ai pantaloni una bomba mentre mettevo la cinghia. Mi hanno portato in una pasticceria dove mi hanno levato le schegge dalle gambe e mi hanno bendato e mi davo ancora di più delle arie da martire ed eroe. Il giorno dopo era il 25 aprile, Genova è stata liberata dagli americani ma hanno solo fatto una passeggiata in mezzo alla folla che applaudiva, noi eravamo stati cosi bravi che avevamo liberato la nostra città già da due giorni. Sono molto orgoglioso dei miei cittadini».
Per alcuni versi è proprio dalla sua esperienza partigiana che inizia la carriera nel cinema.
«Ho iniziato interpretando nel film "Achtung! Banditi!" di Lizzani il commissario partigiano. Avevo 20 anni e ne dimostrano molti di più e ho rivissuto il periodo della Resistenza quando ero giovane».
Quel passato le è rimasto dentro, non ha mai smesso di raccontare la Resistenza attraverso i suoi film.
«La Resistenza è stata protagonista di un evento che è stata la democrazia. Oggi, invece, mi addolora vedere quanto è cambiato il mondo. Ne abbiamo viste di tutti i colori – dalle Brigate Rosse agli attentati alle banche, la bomba alla stazione di Bologna – ma il periodo che stiamo attraversando è il più triste».
Più triste della stagione terrorismo?
«Dopo aver vissuto due anni con il Covid che ha portato spavento e tanta povertà è arrivata una guerra assolutamente insensata. Che cosa si fa? Si vuole un Paese ma lo si distrugge completamente? È una cosa che mi fa venire i brividi. Mi viene in mente quando ero bambino e c’era la guerra. A Genova, dove abitavo, c’erano le gallerie dove andavamo quando suonava l’allarme. Ormai avevamo un posto letto lì perché quasi tutte le notti ci dovevamo recare al rifugio. Come dimenticare il momento in cui quando è suonato il cessato allarme con mia mamma, mio padre e le mie sorelle uscimmo dalla galleria, tornammo a casa e non c’era più, una bomba l’aveva buttata giù. Per me è indimenticabile l’abbraccio tra mia madre e mio padre tra le macerie. Quando oggi rivedo quelle scene in televisione ho un brivido e ogni tanto sono costretto a spegnere. Rendermi conto che tirano alle case più che agli obiettivi militari mi angoscia. La bomba è grave ma una cannonata contro una casa è anche più grave. Che dolore!».
Dolore particolare per voi che avete vissuto e combattuto per un mondo libero.
«Si, l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle e adesso ci risiamo. Sono amareggiato. Con Vera, la mia meravigliosa moglie, compagna e collaboratore dei film, ci riflettiamo spesso. Siamo felici di stare insieme e pensiamo che sia davvero un periodo terribile, pieno di punti interrogativi drammatici. Se c’è un pazzo dall’altra parte chi lo tiene? Speriamo bene, non sono tranquillo. Come si fa a stare tranquilli quando uno invade un territorio senza dichiarare guerra e distrugge quel territorio? È una cosa che non è concepibile».
I pacifisti sostengono che inviare armi significa alimentare la guerra. Che ne pensa?
«È vero ma abbiamo dato soldi, armi e protezione. Abbiamo anche accolto migliaia di profughi. È chiaro che c’è la paura che dall’altra parte venga considerato un nemico uno che dà le armi agli ucraini e in molti c’è la preoccupazione che questa guerra si espanda ancora. Tra tutte le armi ce n’è una che si chiama atomica e chi dimentica quello che è successo a Hiroshima e Nagasaki?» .
Anche nelle piazze della Resistenza ieri c’era chi difendeva Putin.
«Spero che i russi si rendano conto da chi sono diretti. Dittatore è una parola che pensavo fosse stata dimenticata per sempre. Invece in Russia c’è e questo è un dolore per la storia, un grande buco nero. Io e la mia compagna ci pensiamo spesso, non pensavamo che saremmo finiti in un periodo come questo in cui può succedere di tutto. Speriamo di no, speriamo che passi, facciamo in modo tutti insieme che la parola pace trionfi».