Corriere della Sera, 26 aprile 2022
Cosimo de’ Medici, l’uomo forte di Firenze
Cosimo de’ Medici (1389-1464) morì agli inizi di agosto a Careggi. Si era lì trasferito con la famiglia perché a Firenze si annunciava un’epidemia di peste. Aveva settantacinque anni. Dal 1420 aveva assunto la direzione del Banco di famiglia e da più di un trentennio era al comando della città.
Suo padre, Giovanni di Bicci, era morto nel 1429 e Cosimo aveva dato prova di essere un buon tessitore di alleanze oltre che di avere ambizioni grandiose per sé stesso e per la sua impresa politica. Nel 1433 era stato arrestato ed esiliato assieme al fratello e al cugino. Si era trasferito a Venezia da dove, l’anno successivo, era stato richiamato a Firenze. Scrive Lorenzo Tanzini nel raffinato Cosimo de’ Medici, in uscita dopodomani, 28 aprile, da Salerno editrice, che, pur disponendo di un cospicuo patrimonio, «non aveva i mezzi per poter fare sempre quel che voleva, sebbene molti, primo fra tutti il papa Pio II, fossero convinti per partito preso del contrario». In realtà «non fece nemmeno sempre quello che avrebbe voluto». Ma anche quando le circostanze lo portarono a muoversi diversamente da quel che era nelle sue intenzioni, «riuscì sempre ad essere in prima persona colui che guidava il gioco e questo fece indiscutibilmente di lui un leader». Come un leader di prima grandezza possa agire al cuore di una Repubblica «non è una questione confinata alla storia di Firenze», né solo «a quella del secolo decimoquinto». Fu «una delle eredità che Cosimo, insieme alla testimonianza delle sue imprese artistiche, lasciò ai secoli a venire».
Ma c’era una questione, per così dire, più cogente. Il timore che lo aveva ossessionato quando capì che stava per morire, racconta Tanzini, era che con suo figlio Piero «il delicato equilibrio che era riuscito a stabilire tra la famiglia, le entrature diplomatiche e il ceto dirigente fiorentino non si potesse mantenere». L’unica soluzione che ragionevolmente gli pareva saggia era quella di rinsaldare i legami con Francesco Sforza che dal 1450 era divenuto duca di Milano. Sicché già all’indomani della sua morte gli uomini che gli erano stati più vicini si preoccupavano, rivolgendosi proprio allo Sforza, di «mettere al sicuro sé stessi e insieme il futuro di quello che si poteva immaginare come il regime mediceo».
Qualcuno, come Niccolò Soderini e Dietisalvi Neroni, pensò addirittura a una sorta di colpo di Stato per evitare che il potere finisse nelle mani di Piero, da loro ritenuto inadatto a gestire l’eredità di un padre unanimemente considerato (e proclamato nel 1465, otto mesi dopo la sua morte) «Padre della Patria». Del resto, tale titolo fu solennemente iscritto sulla tomba realizzata nella sagrestia vecchia di San Lorenzo e ad ogni evidenza, secondo Tanzini, «andava ben oltre il riconoscimento alla persona». Si può dire che costituisse «un primo tassello per la costruzione di una continuità politica della famiglia» a questo punto guidata da Piero.
Intorno a quel titolo di «Padre della Patria», osserva ancora Tanzini, si giocava la partita dell’eredità di un grande personaggio che, come spesso accade in politica, era anche «una partita per la memoria pubblica». Il senso di quel titolo era inteso in modo diverso da Piero e da quelli che erano stati i principali collaboratori di Cosimo. Piero «sperava di farne un fattore di continuità con il passato», lo intendeva come un’attribuzione a lui stesso di tutto ciò che, in termini di prestigio e di potere, era appartenuto al padre. Per i collaboratori di Cosimo il conferimento di quel titolo era invece un modo di «sottolineare l’eccezionalità della sua figura», lasciando intendere «l’impossibilità di replicarla». Per loro – in particolare il già citato Dietisalvi Neroni, Luca Pitti, Angelo Acciaiuoli e il cugino di Piero, Pierfrancesco di Lorenzo – il lascito del defunto era nella capacità di rappresentare «un compromesso tra esigenze e aspettative diverse». Un compromesso con «il ceto dirigente che aveva accettato e promosso l’egemonia di Cosimo come fattore di equilibrio del regime». Si può dire che fossero sì «cosimiani» (soprattutto dopo la sua morte), ma assai poco «medicei». Quasi per nulla.
Piero non era adatto a comprendere questo sofisticato sottinteso ed ebbe la fortuna (se così si può dire) di morire nel 1469, cinque anni dopo la scomparsa di Cosimo. Per la famiglia la fortuna fu doppia e si concretizzò nel figlio appena ventenne di Piero, Lorenzo che passerà alla storia come «il Magnifico». Un uomo dalle capacità, lui sì, all’altezza di quelle del nonno. Riuscirà miracolosamente, Lorenzo, a sfuggire alla congiura dei Pazzi (1478) dove resterà ucciso suo fratello. In seguito, ricorrerà ai mezzi della Banca «senza alcun risparmio». Mostrando, rileva Tanzini, «di non avere le doti gestionali del nonno». Ma anche «di avere ben inteso il suo insegnamento quanto a utilizzo delle reti bancarie come supporto della politica». Seppe far tesoro, il Magnifico, dei rapporti – ereditati da Cosimo – con Milano. Se ne servì «per la difesa e la conservazione del suo Stato». Contò altresì sulla «rete di fedeltà e clientele a Firenze e soprattutto nel territorio» di cui «fece un vero e proprio strumento di governo, perfezionato e allargato anche rispetto all’esempio del nonno».
E qui il discorso ci riporta a Cosimo. Nel 1979 fece discutere un saggio, pubblicato sulla «Stanford Italian Review», in cui Anthony Molho si domandava – già dal titolo – se Cosimo de’ Medici fosse da considerarsi un padre della patria, come fu solennemente proclamato dopo la morte, o un «padrino». Sì, un «padrino», cioè un personaggio a metà strada tra violenza e potere. Qualcuno che in qualche modo assomigliava al personaggio del celebre libro di Mario Puzo uscito dieci anni prima, reso famoso dal film di Francis Ford Coppola nonché dall’interpretazione di Marlon Brando. E qui si torna al Cosimo «Padre della Patria». Si deve ricordare che per la cultura del tempo «patria non si riferisce all’insieme delle istituzioni, delle forme di governo». Piuttosto è «sinonimo di comunità» e «porta con sé il senso di una comunanza personale, familiare». In questa prospettiva, essere «padre» non vuol dire solo «avere autorevolezza nella dimensione pubblica», ma anche «governare un insieme di affinità personali». L’amicizia, in questo contesto, non è un sentimento individuale o «privato», ma piuttosto «un vero e proprio collante della società». Che «estende i suoi effetti anche alla sfera delle relazioni diplomatiche». Di conseguenza – e qui veniamo al punto – «quello che potremmo intendere come clientelismo o come commistione tra pubblico e privato è un fattore strutturale della vita politica». Già a quel tempo.
Va detto altresì, prosegue Tanzini, che a dispetto dell’opinione dei suoi avversari e di chi lo osservava con livore, Cosimo «non era assolutamente in grado di governare la città solo con la sua volontà, decidendo in solitudine». Certamente, prosegue lo storico, «il cuore del suo successo consisteva nella rete di relazioni che era stato in grado di costruire negli anni grazie al Banco e ai legami con i Papi». Rete di relazioni alla quale poteva sempre ricorrere. Non era però una rete «costruita sul nulla», né «avrebbe davvero funzionato senza le cospicue doti politiche del suo artefice». La «grande arte del banchiere e statista era stata quella di guidare il giudizio dei suoi interlocutori, di orientarne le scelte ora con il ragionamento, ora con il denaro, ora con un gioco di scambio politico». Che si trattasse «delle relazioni con i prìncipi, di accordi con i condottieri o di trattative per le faccende elettorali interne alla Repubblica», quelle di Cosimo erano le doti «di colui che guida anche senza poter comandare».
Per queste doti Cosimo è stato celebrato come iniziatore di quella stagione della dinastia che nel Quattrocento avrebbe portato Firenze al massimo splendore. In particolare, da tre libri. Il primo Cosimo de’ Medici il Vecchio (Marzocco) fu scritto da Curt Gutkind e pubblicato nel 1938 a Londra dove l’autore, ebreo, aveva dovuto riparare per sfuggire alle persecuzioni naziste in Germania. Due anni dopo, Gutkind fu ucciso da un’incursione aerea tedesca contro la nave che avrebbe dovuto portarlo in Canada. Il testimone fu raccolto da un altro israelita che aveva trovato rifugio in Inghilterra: Nicolai Rubinstein, autore di Il governo di Firenze sotto i Medici, 1439-1494 (La Nuova Italia). Il terzo «classico» che approfondì la figura di Cosimo fu Il Banco Medici dalle origini al declino (1397-1494) (La Nuova Italia) di Raymond de Roover.
Adesso Tanzini torna su Cosimo tenendo conto degli studi successivi. Compreso quello di Mohlo con il riferimento al «padrino». Mohlo, riassume Tanzini, partiva dal quadro della vita economica della Firenze del Quattrocento, «enfatizzando» gli elementi più negativi di diseguaglianza crescente, di lotta di classe, di instabilità finanziaria. Per arrivare ad una rappresentazione di Cosimo, a detta di Tanzini, «provocatoria». Quello che la tradizione cittadina aveva celebrato fino alla sua morte come un padre della Patria, secondo Mohlo, era stato, a guardar bene, «artefice di un sistema di potere basato sul clientelismo e sulle fedeltà personali».
Francesco Guicciardini, che scrisse le Storie fiorentine nel 1509, prendendo a modello le Vite parallele di Plutarco, ebbe l’idea di mettere a confronto le figure del nonno (Cosimo) e del nipote (Lorenzo). Guicciardini giunse alla conclusione che fosse stata «più eccellente» quella di Cosimo, perché aveva avuto «più saldezza» e «più giudicio»: fu lui che «fece lo Stato» e «da poi che l’ebbe fatto, se lo godé trent’anni». Cosimo poi, sempre secondo Guicciardini, ebbe più talento per gli affari, le imprese finanziarie e commerciali; un’attitudine che in Lorenzo si sarebbe manifestata assai meno. E forse, scrive Tanzini, non può essere considerato immune dal «sospetto infamante di aver usato il denaro pubblico a proprio privato vantaggio». L’unico punto a vantaggio del Magnifico fu, a detta di Guicciardini, la cultura: in lui «abondarono eloquenzia, destrezza, ingegno universale in dilettarsi di tutte le cose virtuose e favorirle». Virtù che a Cosimo erano del tutto mancate. Inoltre, «si dice», che il Vecchio «nel parlare» fosse stato «più tosto inetto». Nonostante ciò, insiste Guicciardini, ci sono pochi dubbi che Cosimo sia stato «più valente uomo».
Anche Machiavelli nelle Istorie fiorentine approfondì il ruolo di Cosimo sottoponendolo ad un confronto. Ma non con il nipote, bensì con un suo importante avversario, Neri di Gino Capponi. Mise in risalto, Machiavelli, come il Vecchio, a differenza di Neri, «aveva amici e partigiani assai». L’autore del Principe non trascurò il delicato argomento della commistione tra pubblico e privato. Questo giudizio fu riequilibrato a fine Settecento da due studiosi. Il primo fu l’erudito Angelo Fabroni che, in tempi di illuminismo, dedicò un’accurata biografia a Lorenzo (1784) e, quattro anni dopo, ne scrisse un’altra su Cosimo (1788). Il secondo fu William Roscoe il quale, sulla scia di Fabroni, scrisse la fondamentale Vita di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico (1796).
Resta il capitolo sul mecenatismo del nonno di Lorenzo il Magnifico di cui si è magistralmente occupata la storica australiana Dale Kent in Il committente e le arti. Cosimo de’Medici e il Rinascimento fiorentino (Electa). La promozione delle arti, così come la cura di una rete di fedeltà e di amicizie, non sono, secondo Tanzini, «strumenti usati in vista di fini di altra natura». Lo storico ben capisce che una mentalità del genere sia difficile da intendere nella nostra prospettiva. Tutto ci porta a considerare quel genere di iniziative come interessate e strumentali. Ma lo furono solo in parte. In minima parte. Considerazione che giova al buon nome di Cosimo.