Corriere della Sera, 26 aprile 2022
Biografia di Guido Maria Brera raccontata da lui stesso
L’uomo che ha scritto i Diavoli, sia il best seller sia la serie tv ora alla seconda stagione su Sky in 160 Paesi, e che, della finanza, ha raccontato spregiudicatezza e persino omicidi, mi riceve nella lussuosa sala riunioni della società di asset management e private banking che fondò da ragazzo. La sensazione è da intervista sul luogo del delitto. Camicia bianca, cravatta stretta, riccioli appena brizzolati, Guido Maria Brera ricorda un po’ il «diavolo» Patrick Dempsey, e tuttavia è anche la stessa persona che ha narrato la ferocia della globalizzazione scrivendo con Edoardo Nesi Tutto è in frantumi e danza, o che ha scritto un romanzo su un rider di nome Candido così vessato da far venire voglia di abbracciarlo.
Pensavo che ormai scrivesse e basta, invece?
«L’azienda l’avevo venduta e, per un po’, ero indeciso se rientrare o no. Alla fine non ho mai staccato perché la finanza è uno strumento meraviglioso per capire il presente e intuire il futuro. Io prendo sempre mille appunti perché scrivere mi aiuta a capire meglio, poi, declinare gli appunti in investimenti o in romanzi è uguale».
Quanto era diverso da oggi il ventinovenne che stava per fondare Kairos a Londra?
«Era un ragazzo con una doppia vita: di giorno, in giacca e cravatta; di sera, metteva una tuta rossa e andava da Fratel Ettore ad assistere i senzatetto alla stazione di Milano. Quel frate era burbero ma meraviglioso: se esistono i santi, devono essere come lui. Una sera, mi fece inginocchiare e mi affidò alla Madonna. Disse: a lui pensaci te. Io non capii nulla, so che il giorno dopo, due colleghi che diventeranno i miei soci, Paolo Basilico e Roberto Condulmari, mi dissero: ci sarebbe una cosa nuova da fare, si chiamerà Kairos. Mi trasferii a Londra all’istante. Lo racconto per dire che, ai tempi, non mi faceva paura nulla, ero molto forte. Adesso, mi sento fragile».
Fragile perché?
«M’impressiona questo mondo così veloce, dove tante persone sono sfortunate, vanno in ospedale, sono sotto le bombe. O forse la fragilità arriva da più lontano: quando mia madre mi ha partorito, aveva appena perso sua mamma dopo una malattia e la paura della sofferenza degli altri mi è sempre appartenuta. Ora ho una fondazione, ma rivorrei l’equilibrio che avevo da giovane per fare volontariato sul campo».
Dunque, il volontariato non era una forma di espiazione perché, da trader, guadagnava sfacciatamente tanto?
«Me lo chiedevo. Però, c’era anche qualcos’altro che ancora oggi non riesco a capire. I ragazzi escono, vanno in discoteca: cose che io ho sempre detestato. Mi chiedo ancora: chi ero?».
Alla scrittrice Teresa Ciabatti, su «Io Donna», ha detto che era sfigato.
«Teresa lamenta anche che la dimenticai a una festa. Forse ha pure ragione».
Ero rimasta a Ciabatti che confessa d’essere stata innamorata di lei, e respinta, a 13 anni.
«Tendenzialmente, io mi occupavo di lei: esigeva attenzione per delusioni, amarezze e anche nei momenti belli. Mentre, se c’è qualcosa che riguarda me, lei sparisce, ma io la adoro come una sorella e la perdonerò sempre».
Non mi ha risposto: da ragazzo era sfigato?
«Pensavo di esserlo, molto. A ripensarci, invece, il mio gruppo era vivo, colto. Ci formavamo sui film, usciva Caro Diario e andavamo a vedere il monumento di Pasolini e a fare il bagno all’alba a Ostia. Eravamo veri. Forse coraggiosi».
Però, non era così che si sentiva.
«Io ero di Roma Sud. Di San Saba. Famiglia normalissima, papà che lavorava in banca, mamma casalinga. E c’era il mito dei Parioli, di Roma Nord, dove tutti erano più eleganti, parlavano un romano più bello, camminavano meglio. Alla fine, ho cercato il riscatto sociale nella finanza, che è un lavoro molto meritocratico».
L’aveva desiderata, cercata?
«Tutt’altro. Volevo fare il ricercatore, amo scrivere, leggere, studiare, ma all’università non c’era posto e la finanza è una sorta di organismo vivente che seleziona i talenti, ti viene a cercare, ti trita, decide se tirarti su o giù. In Fineco, mi diedero da gestire un fondo che risultò il primo d’Italia, e così la finanza mi portò su».
Primo miliardo di lire?
«Perché me lo chiede?».
Perché il protagonista di «Resistere non serve a niente», col quale Walter Siti vinse lo Strega e che è ispirato a lei, per festeggiare il primo miliardo, comprò una Berkel affetta prosciutto.
«Ho guadagnato bene, ma non sono ricco come si potrebbe credere. Da giovane, in effetti, gli stipendi della finanza sono alti: quando passai da Milano a Londra, aggiunsi uno zero. Però la nostra carriera è come quella del calciatore: breve e a parabola. Certo, all’inizio, mi tolsi qualche sfizio, inclusa quell’affettatrice costosissima».
Siti la cercò per documentarsi per il suo romanzo e poi?
«La nostra amicizia nasce da una diffidenza reciproca forte, ma Walter aveva aspettative così basse che era facile batterle. Dopo, sono stato anche suo testimone di nozze».
Lei è sposato con la conduttrice tv Caterina Balivo, che cosa vi unisce?
«Amo il suo saper essere leggera restando una persona di spessore. Mi aiuta usando due armi: sensibilità e capacità di sdrammatizzare».
Avete due bimbi di 9 e 4 anni e lei ha fatto scalpore dicendo che, ai figli, bisogna insegnare non il cinese, ma a guidare il trattore.
«I tempi mi stanno dando ragione: la crisi energetica, alimentare, climatica dimostrano che serve un ritorno alla terra. Ai figli ho vietato i videogiochi e imposto di studiare non oltre un’ora e mezza: dopo, fanno attività all’aperto. Devono imparare a studiare in poco tempo perché la vita chiederà di saper fare tutto in fretta».
In «Diavoli 2» cosa ha voluto raccontare?
«La scommessa, vinta, è stata identificare il momento in cui tutto si stava rompendo, ovvero l’inizio di questi nuovi tempi. Quello che vediamo oggi, pandemia e guerra, è la luce di una stella che si era già spenta: la guerra è arrivata quando si è rotta la globalizzazione e quando si è realizzato che lo scambio politico in cui si davano merci a basso costo ma si toglievano diritti ai lavoratori non conveniva più. Per anni, ci siamo illusi di essere ricchi perché potevamo comprare magliette a due euro. Il populismo, che non condivido, ha però smascherato questa trappola. Nel 2016 in cui vive questa stagione, il sistema si rompe, c’è la Brexit, arriva Trump...».
Cos’è il «Tredicesimo piano» dei «Diavoli»?
«La metafora di una sorta di cassa di compensazione. Se c’è la globalizzazione, i problemi globali dove li affronti? Nei Parlamenti nazionali? No. Ho immaginato, stando lontano dal complottismo, un gruppo di finanzieri, corporation, agenzie di rating, che nell’assenza totale della politica cerca di guidare la transizione fra pandemia, climate change, rivoluzione digitale...».
C’è un uomo che più di altri ha ispirato i suoi protagonisti?
«Larry Summers, già segretario al Tesoro degli Stati Uniti, uno che ha sempre dato la linea, ma ha fatto errori importanti: ha promosso la globalizzazione, ha sostenuto l’abolizione del Glass-Steagall Act a cui seguì il crac di Lehman Brothers... Ora, però, Summers è tornato keynesiano, critica l’austerity, invita a investimenti pubblici. Io, da anni, chiedevo e speravo che l’epoca del liberismo sfrenato finisse, per questo ho scritto per Solferino Dimmi cosa vedi tu da lì, dove mi sono messo a cercare il fantasma di Federico Caffè, il nostro più grande keynesiano. E la cosa incredibile è che, mentre lo scrivevo, il mio stesso fantasma viene cercato dai diavoli. Su Summers c’è stato un dibattito accesso nel collettivo dei Diavoli: alcuni lo condannano per quanto è stato liberista, io preferisco vedere un uomo che ha cambiato idea e che si è messo dal lato giusto della storia».
Che succederà il giorno in cui Summers scoprirà di aver ispirato il cattivo di una serie sui diavoli della finanza?
«Bisognerebbe presentargli Patrick Dempsey, che è del Maine, mentre lui è stato rettore di Harvard: non nascono lontani. Ma quel personaggio sorprende perché, alla fine, è positivo».
Positivo in che cosa?
«A Patrick l’ho spiegato così: mi sono ispirato al Grande Inquisitore di Dostoevskij, che dice: se lascio gli uomini liberi, si crea un caos. Il suo Dominic Morgan porta il fardello della libertà eccessiva data dalla politica che, negli ultimi 30 anni, si è ritirata dall’arena, con le sinistre alleate col centro e dimentiche dei diritti sociali».
Che effetto le fa Alessandro Borghi nei panni del Massimo Ruggero ispirato a lei da giovane?
«Un regalo enorme. È stato concepito con la matita, il passaggio al Pc è stato molto lento. E ora, quando vedo lui con lo zaino in spalla, mi sembra incredibile. E fa effetto vedere Patrick e Alessandro insieme fuori dal set... Emanano qualcosa con cui si nasce: il carisma».
Nei suoi anni da trader, che cosa la entusiasmava e che cosa la faceva soffrire?
«Se domanda a un trader “perché fai questo lavoro”, la risposta sarà sempre: perché I want to be right. In questa risposta c’è tutto».
Per avere ragione.
«È una sfida: tu compri uno vende, chi ha ragione? La finanza ti richiede di capire il minimo taglio di vento, la scintilla che cambia il corso delle cose. E devi arrivare prima dell’algoritmo. È una cosa che mi ha fatto tremare le mani e sentire le formiche sulla faccia, perché vuoi avere il controllo e la cosa più difficile è capire quando stai sbagliando. Allora, per un quarto d’ora, per svuotare la mente, guardi un pesce rosso e sembri un cretino. Infatti ho smesso di guardare pesci rossi. Oggi gioco a ping pong. Però funziona di più mettere la testa sott’acqua a due metri, in apnea, ma non è un rimedio a portata di mano».
Tutti i giorni così: come si fa a resistere?
«Devi avere un’uscita di sicurezza. Per me, la scrittura, i podcast che produco con Chora Media, il collettivo, la possibilità di non annoiarmi senza la finanza. E conta poter guardare il mare: la felicità davanti al mare è un’idea semplice».