Corriere della Sera, 26 aprile 2022
Il riarmo nucleare Usa-Russia a confronto
Il Trattato di non proliferazione nucleare dell’Onu, entrato in vigore nel 1970, prevede il disarmo per i Paesi nucleari e la rinuncia a sviluppare armi atomiche per gli altri. Lo firmano subito Usa, Urss e Gran Bretagna. Nel 1985 la Corea del Nord (che nel 2003 si ritira) e nel 1992 Francia e Cina. Gli unici Paesi al mondo che non hanno mai aderito sono Israele, India e Pakistan. L’8 aprile del 2010 il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e quello della Federazione Russa, Dmitrij Medvedev, firmano il New Start, ancora in vigore, che prevede da ambedue le parti un massimo di 1.550 tra bombe e testate nucleari. Ma qual è oggi la situazione reale degli arsenali atomici?
La spesa per il nucleare
La Russia, con 6.370 armi nucleari (fra missili e bombe), detiene il pericoloso primato mondiale. Mosca nel 2019 ha speso 8,5 miliardi di dollari, mezzo miliardo in più rispetto al 2018. Le stime sono dell’Ican, l’Istituto con sede a Ginevra che gestisce la campagna internazionale contro le armi atomiche e che nel 2017 ha ricevuto il Nobel per la Pace. Gli Usa ne possiedono meno: 5.800, secondo il censimento dell’Ican, e 3.750, secondo la Nnsa, la National nuclear security administration. Di queste circa un centinaio sono dislocate in cinque Paesi europei della Nato: principalmente in Germania, ma anche in Italia, nelle due basi aeree di Aviano e di Ghedi (la stima è di 40 B61). Anche nel caso degli Stati Uniti la cifra prevista per curare gli armamenti atomici è cresciuta nel 2019 rispetto al 2018 di ben 5,8 miliardi di dollari, per una spesa totale di 35,4 miliardi. Ha incrementato la spesa anche l’India per 200 milioni di dollari (totale 2,3 miliardi), la Francia per 400 (arrivando così a 4,8 miliardi) e la Cina per 400 milioni (totale 10,4 miliardi). Ma è probabile che Pechino stia pensando di aumentare in modo significativo il proprio impegno nel nucleare militare: una serie di foto satellitari in questi giorni ha mostrato il completamento di 119 silos nella zona di Yumen (a nord di Pechino), che hanno tutte le caratteristiche per essere usati come siti per il lancio di missili nucleari. Nel 2019 non hanno invece aumentato la spesa la Gran Bretagna (ferma a 8,9 miliardi), Israele (1 miliardo), la Corea del Nord (0,6), mentre il Pakistan è sceso da 1,2 miliardi a 1 miliardo.
Sette miliardi in più all’anno
Nel corso del 2019, dunque ben prima dell’invasione da parte della Russia in Ucraina, il club degli Stati con armamenti atomici ha stanziato 7,1 miliardi in più rispetto al 2018, portando la spesa totale a 72,9 miliardi. Come aveva già anticipato nel 1946 lo scienziato Robert Oppenheimer, «gli esplosivi atomici hanno enormemente accresciuto il potere distruttivo per dollaro speso». E di dollari per mantenere un equilibrio basato sulla deterrenza durante la Guerra Fredda ne sono stati spesi tanti: la stima complessiva è di un costo di 5.800 miliardi dalla fine della Seconda guerra mondiale al disfacimento dell’Unione Sovietica. Circa 145 miliardi l’anno, cioè il doppio di quanto si spende oggi. La Guerra Fredda però è finita 30 anni fa, e il Trattato Onu ha effettivamente portato a smantellare la maggior parte degli armamenti atomici (solo gli Usa nel 1967 possedevano 31.255 tra bombe e missili). Allora perché la spesa è ancora così alta? E soprattutto come mai, a una quasi parità di numero di armi, corrisponde questa enorme differenza di spesa tra Russia e Stati Uniti?
Perché gli Usa spendono di più
Va prima di tutto sottolineato come il budget e la spesa ufficiale degli Usa sia maggiormente riscontrabile nei documenti ufficiali, laddove la Russia considera l’argomento top secret. Ma la vera differenza è che la gran parte degli investimenti americani serve per bonificare i siti radioattivi e smantellare gli arsenali, e non solo in casa propria. In un documento presentato al congresso nel mese di marzo 2022 si legge, per esempio, che «la richiesta per l’esercizio 2023 include 7,6 miliardi di dollari per ripulire milioni di tonnellate di combustibile nucleare esaurito e materiali nucleari, smaltimento di rifiuti transuranici e misti/di bassa attività, enormi quantità di rifiuti contaminati tra suolo e acqua, e la disattivazione di migliaia di strutture in eccesso. Questo programma di bonifica ambientale coinvolge alcuni dei materiali più pericolosi conosciuti dall’umanità. A oggi, il Dipartimento dell’Energia tramite la Nnsa ha completato le attività in 92 siti in 30 Stati e nel Commonwealth di Porto Rico, ed è responsabile della pulizia dei restanti 15 siti in 11 Stati». In particolare, si aggiunge, 612 milioni verranno usati «per le attività di bonifica presso il sito di Oak Ridge». Un nome che conta: è il luogo dove durante il conflitto mondiale il Premio Nobel Enrico Fermi costruì la prima centrifuga atomica.
I depositi russi costruiti dagli Usa
Dunque se costruire armi atomiche è costato migliaia di miliardi, ripulire il mondo dai loro rifiuti non è gratis. Dopo il disfacimento dell’Urss nel 1991, gli Usa si sono fatti carico dello smantellamento dei depositi ubicati nei Paesi satelliti dell’ex Unione. E non per generosità. Si temeva che materiali fissili, testate e bombe, potessero finire in un «bazar atomico» (definizione dell’esperto William Langewiesche). Per evitare la vendita sul mercato nero la stessa Nnsa ha speso miliardi all’anno. L’Ucraina era la terza potenza mondiale per numero di armi atomiche. Ci rinunciò totalmente a partire dalla metà degli anni Novanta in cambio di una piena sovranità territoriale. Se non fosse avvenuto oggi saremmo di fronte a una guerra tra due superpotenze nucleari. L’America ha aiutato direttamente anche la Russia a mantenere in condizioni di sicurezza la propria Santa Barbara atomica. Secondo Langewiesche in alcuni anni ha speso 1,7 miliardi. Nella sola città di Ozërsk, una delle tante città segrete sovietiche dove si costruivano e mantenevano armamentari nucleari, gli Stati Uniti hanno investito 350 milioni per costruire il Plutonium Palace, un deposito sicuro per conservare il 40 per cento del plutonio russo. Si ipotizza che sia rimasto vuoto. Putin ha preferito lasciarlo nelle testate atomiche piuttosto che in un magazzino isolato.
Il riarmo è partito nel 2011
Gli aiuti si interrompono nel 2014 con l’annessione della Crimea da parte della Russia. Ma la corsa al riarmo nucleare in realtà era già partita. La stessa amministrazione Obama nel 2012 aveva chiesto 10 miliardi di dollari l’anno per 10 anni per accrescere il «sistema difensivo atomico». Sempre l’amministrazione Obama aveva aggiunto altri 14 missili per intercettare testate nucleari a Fort Greely. I nemici allora si chiamavano Iran e Corea del Nord, ma è chiaro, come ha riconosciuto in questi giorni anche l’ex presidente Bill Clinton, che gli Usa avevano iniziato a diffidare anche della Russia. A sua volta l’amministrazione Trump ha avviato il processo di aggiunta di altri 20 missili con tecnologia aggiornata e il primo dovrebbe essere schierato entro il 2028. La Russia da parte sua, già nel programma 2011-2020, aveva avviato una «considerevole modernizzazione del proprio armamentario nucleare», come scriveva in un report il Sipri (Stockholm international peace report institute). Inoltre nel 2018 è stato avviato un nuovo programma di armamenti che sarà completato per il 2027. Dunque, i segnali di un nuovo consolidamento dei due poli nucleari non sono nuovi, ma ce ne stiamo accorgendo adesso. Forse il lockdown mondiale, con due anni concentrati solo sulla pandemia, ha steso quella cortina di silenzio utile a creare le condizioni per una escalation. Sembrava impossibile. Ma i numeri purtroppo parlano chiaro.