Corriere della Sera, 26 aprile 2022
Petrocelli è incollato alla poltrona
«Sa come si dice dalle mie parti? “Ti venimme a piglia’ sotto la casa”. Ma non ci sarà bisogno. Se non dovessi riuscire a costruire qualcosa, mi verrei a prendere sotto casa da solo e comunque mi dimetterei». Ora che anche da espulso dal M5S rimane inchiodato alla poltrona di presidente della commissione Esteri del Senato, visto che di dimissioni non se ne parla, a qualcuno potrebbe venire in mente di chiedere a Vito Petrocelli se almeno quell’ideale gesto di andare a prendersi sotto casa da solo ha intenzione di metterlo in pratica, simbolicamente.
Perché proprio così, «mi verrei a prendere sotto casa da solo», parlava il neoeletto senatore Petrocelli nel 2013, allorquando dentro i pentastellati freschi di esordio in Parlamento si litigava sull’ipotesi di votare per Laura Boldrini e Pietro Grasso del Pd alle presidenze di Camera e Senato e lui si ergeva a paladino dell’ortodossia grillina, fatta di rigoroso rispetto del mandato degli elettori e massicce dosi di «trasparenza» e «legalità».
Adesso che l’ostensione via Twitter della Z simbolo dell’aggressione di Putin all’Ucraina (per giunta in un messaggio di auguri sul 25 Aprile) gli è valsa l’espulsione dal Movimento, certificando quantomeno la mancata «trasparenza» sulle ragioni che lo spingono a occupare la poltrona di presidente di commissione, Petrocelli fa spallucce. La stampa internazionale, come segnalava ieri su Twitter il leghista Claudio Borghi («Intanto Petrocelli è riuscito ad andare sul Telegraph. Anni di anonimato e alla fine tutti parlano di lui per una Z. Umberto Eco avrebbe molto da dire sull’argomento»), lo censisce come il «putiniano» più alto in grado che ci sia in Italia. Anche se forse al diretto interessato, già celebrato dal portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian per il suo negazionismo rispetto alla persecuzione degli uiguri, fa più piacere essere accostato agli ultras di Pechino che non ai fan di Mosca.
Già, perché alle ragioni del «putinismo» Petrocelli c’è arrivato di riflesso, spinto dal vento che nel suo cuore soffia forte da levante. Il senatore pd Tommaso Cerno ha ricordato di quando decise di abbandonare una missione italo-cinese e di fare i bagagli per tornare a Roma dopo aver sentito celebrare «il nuovo modello di pianeta forgiato sul sistema cinese e lui, Petrocelli, in totale sintonia con quella dittatura, era più maoista del grande timoniere». D’altronde, che ci siano zone del mondo che «senza un pizzico di autoritarismo collasserebbero», il senatore espulso dal Movimento 5 Stelle lo pensa e lo dice anche. Nel 2014, invece, all’epoca della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi e poi bocciata dal referendum, contro «il rischio dell’autoritarismo» Petrocelli urlava in Aula e in piazza.
I tempi cambiano, il suo altalenante rapporto con l’autoritarismo – quando serve e quando no, ora serve e ora no, qua sì e qua meglio di no – evidentemente rimane. In fondo, rimanendo alla presidenza della commissione Esteri nonostante l’espulsione dal suo partito e in barba all’essere in minoranza, il senatore Petrocelli completa il percorso iniziato dall’«uno vale uno» di Casaleggio e approdato all’«io so’ io» del Marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi. Gli altri, eufemismi alla mano, per adesso non valgono un tubo. O quasi.