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 2022  aprile 25 Lunedì calendario

"BAFFONE" PORTAVA SFIGA - STALIN RITENEVA CHE UN SUCCESSO DI CHURCHILL ALLE ELEZIONI FOSSE GARANTITO “POICHE' NON ESISTE MIGLIOR CAPO DI COLUI CHE HA VINTO LA GUERRA”. IL PREMIER INGLESE RISPOSE CHE NEL REGNO UNITO C'ERANO DUE PARTITI E CHE LUI ERA, SEMPLICEMENTE, UN MEMBRO DI UNO DI ESSI. “E' MOLTO MEGLIO AVERE UN PARTITO UNICO” CHIOSO’ STALIN (PER LA CRONACA: CHURCHILL POI PERSE LE ELEZIONI) – QUANDO IL DITTATORE SOVIETICO SEPPE CHE CHURCHILL E ROOSEVELT LO CHIAMAVANO "ZIO GIUSEPPE" MINACCIÒ DI LASCIARE YALTA, POI… -

Estratto di “La Seconda guerra mondiale”, di Winston Churchill, pubblicato dal “Corriere della Sera” il 19 novembre 1953 La sera del 10 febbraio a Yalta si svolse nella mia residenza l’ultimo pranzo di cerimonia della conferenza. Molte ore prima che Stalin arrivasse, comparvero a villa Vorontzov numerosi soldati russi. Essi chiusero le porte che si trovavano sui due lati minori della sala da pranzo e si misero di fazione in vari punti. Fu compiuta una accuratissima perquisizione; i russi frugarono sotto i tavoli e negli angoli piu strani.

I miei collaboratori furono fatti uscire dalla villa e indotti a ritirarsi nei loro alloggiamenti privati. Quando tutto fu trovato in ordine giunse il Maresciallo, di ottimo umore, seguito poco dopo dal Presidente Roosevelt.

Al pranzo svoltosi alla villa Yusupov Stalin aveva brindato alla salute del re in una forma che, pur volendo essere amichevole e rispettosa, non mi era per niente andata a genio. Infatti il Maresciallo aveva detto che egli era sempre stato contrario a tutti i re, che egli era dalla parte del popolo e non gia dalla parte di alcun re, ma in questa guerra egli aveva imparato a onorare e stimare il popolo britannico, che amava e rispettava il suo re, e percio egli proponeva un brindisi alla salute del re d’Inghilterra.

Io non ero rimasto per nulla soddisfatto di quel brindisi e percio dissi a Molotov che gli scrupoli di Stalin avrebbero potuto essere evitati in futuro brindando alla salute dei «tre Capi di Stato». E poiche cosi fu convenuto, quella stessa sera misi in «Vi e stato un tempo in cui il Maresciallo non era cosi gentile verso di noi; ed io ricordo di aver fatto qualche duro rimarco sul suo conto, ma i comuni pericoli e la reciproca lealta hanno spazzato tutti questi malintesi; il fuoco della guerra ha bruciato tutte le incomprensioni del passato.

«Noi sentiamo che abbiamo un amico del quale ci possiamo fidare e io spero che egli continui a nutrire gli stessi sentimenti nei nostri confronti. Io prego che egli possa vivere tanto a lungo da poter vedere la sua amata Russia non soltanto vittoriosa in guerra ma anche felice in pace».

A quel pranzo, compresi gli interpreti, eravamo non piu di una dozzina di persone e, una volta esaurita la parte protocollare, si intavolarono amichevoli discussioni a piccoli gruppi di due o tre.

Io avevo detto fra l’altro che, dopo la sconfitta di Hitler, si sarebbero svolte in Inghilterra le elezioni generali. Stalin riteneva che un mio successo fosse garantito «poiche – egli disse – il popolo vuole avere un capo e quale miglior capo potrebbe scegliere di colui che ha vinto la guerra?».

Gli spiegai che in Inghilterra vi erano due partiti e che, io, ero semplicemente un membro di uno di essi. «E molto meglio avere un partito unico », osservo Stalin con tono di profonda convinzione.

Stalin racconto poi un episodio personale per illustrare quello che lui chiamava «l’insensato spirito di disciplina della Germania del Kaiser». Da giovane, una volta, Stalin si era recato a Lipsia con circa duecento comunisti tedeschi per partecipare a una conferenza internazionale che si svolgeva in quella citta. Il treno era arrivato puntualmente in stazione ma mancava l’usciere che doveva raccogliere i biglietti.

Cosi i duecento comunisti germanici attesero docilmente per due ore prima di poter uscire dalla stazione; e giunsero troppo tardi al convegno per partecipare al quale avevano fatto un lunghissimo viaggio.

La serata trascorse in maniera piacevole. Ma in un’altra occasione, sempre durante la nostra permanen- za a Yalta, le cose non erano andate tanto lisce. Durante una colazione offerta da Roosevelt, questi rivelo che spesso lui e io, nei nostri rapporti privati, indicavamo Stalin con l’appellativo di «zio Giuseppe». Io avevo suggerito a Roosevelt di rivelare quel particolare a Stalin in privato, ma il Presidente invece lo disse in tono scherzoso in presenza di tutti.

Ci fu un momento di imbarazzo penoso. Stalin si offese: «Quando potro lasciare questa tavola?» domando in tono adirato. Fu Byrnes a salvare la situazione con una frase felice. «Dopo tutto – disse – voi non vi fate scrupolo di usare il termine zio Sam per indicare l’America, e allora cosa c’e di male nel dire zio Giuseppe?». Allora il Maresciallo si placo e piu tardi Molotov mi assi- curo che Stalin aveva perfettamente compreso lo scherzo.

Egli sapeva gia che molta gente all’estero lo chiamava zio Giuseppe e si era reso conto che il soprannome gli era stato affibbiato in senso amichevole e affettuoso. Il giorno successivo chiuse il periodo della nostra permanenza in Crimea. Come sempre accade in simili conferenze, molte gravi questioni rimasero insolute. Il Presidente era ansioso di rientrare in patria e di fare una sosta in Egitto durante il viaggio per discutere le questioni del Medio Oriente. A mezzogiorno dell’ll febbraio Stalin e io facemmo una colazione con Roosevelt a palazzo Livadia, in quella che era stata un tempo la sala da biliardo dello zar. Durante il pranzo, firmammo i documenti conclusivi e i comunicati ufficiali. Tutto ora dipendeva dallo spirito con cui quei documenti sarebbero stati messi in atto.

Quello stesso pomeriggio partii in automobile con mia figlia Sarah verso Sebastopoli, dove era ancorato il transatlantico Franconia, che era servito come base logistica principale della nostra delegazione. Io desideravo visitare il campo di battaglia di Balaclava e percio chiesi al generale Peake di prepararsi a farci da cicerone e a illustrarci tutti i particolari della famosa azione svoltasi durante la guerra di Crimea.

Il pomeriggio del 13 febbraio mi recai nella zona; mi accompagnava l’ammiraglio russo che comandava la flotta del Mar Nero e che mi era stato assegnato come scorta personale dal Governo di Mosca. Noi eravamo un poco timidi e usavamo molto tatto nei riguardi del nostro ospite. Ma non avremmo dovuto preoccuparci tanto. A un certo momento, il generale Peake ci indico la posizione sulla quale si era schierata la Brigata Leggera; l’ammiraglio russo intervenne indicando quasi lo stesso punto ed esclamo: «I carri armati tedeschi piombarono su di noi da quella posizione».

Poco dopo, Peake ci stava illustrando lo schieramento dei russi e indicava le colline sulle quali era piazzata la loro fanteria quando intervenne nuovamente l’ammiraglio sovietico e con evidente orgoglio esclamo: «In quel punto una batteria russa combatte fino a che l’ultimo servente fu ucciso». A questo punto ritenni giusto spiegare al nostro ospite che noi stavamo studiando un’altra guerra: «una guerra di dinastie e non di popoli». Il nostro amico ammiraglio non diede cenno di aver compreso ma si mostro completamente soddisfatto. E cosi tutto si svolse nel migliore dei modi.

Nelle prime ore del 14 febbraio partimmo in automobile verso l’aeroporto di Saki e di qui in volo per Atene dove fui accolto da una grande dimostrazione popolare.

La mattina del giorno 15 partii in aereo per Alessandria d’Egitto; qui presi quartiere a bordo dell’incrociatore Aurora. Le conversazioni tra il Presidente Roosevelt e Ibn Saud. Faruk e Haile Selassie si erano svolte nei giorni precedenti a bordo dell’incrociatore americano Quincy, che aveva calato le ancore nel Lago Amaro. Poco dopo il mio arrivo il Quincy entro nel porto di Alessandria e verso mezzogiorno io salivo a bordo. Erano con me i miei figli Sarah e Randolph, e Roosevelt aveva accanto sua figlia Anna (allora sposata Boettiger); ci riunimmo tutti nella cabina del Presidente per una cena amichevole, alla quale presero parte anche Hopkins e Winant.

Il Presidente appariva tranquillo e fragile; io ebbi la sensazione che egli si sentisse gia un poco distaccato dalle cose di questo mondo. Non lo dovevo vedere mai piu. Ci salutammo affettuosamente e nel pomeriggio la nave di Roosevelt levava le ancore per tornare in America.

Esattamente a mezzogiorno del 27 febbraio io chiedevo alla Camera dei Comuni di approvare i risultati della conferenza di Yalta. In generale i deputati appoggiavano completamente l’atteggiamento da noi assunto; ma era anche fortemente sentito l’obbligo morale che noi avevamo verso la Polonia che tanto aveva sofferto ad opera dei tedeschi e per la quale avevamo preso le armi. Un gruppo di circa trenta deputati sentiva tanto profondamente la questione che parlo apertamente contro la mozione da me proposta.

E molto facile, dopo la sconfitta della Germania, criticare coloro che fecero del loro meglio per rincuorare i russi, aiutare il loro sforzo bellico e mantenersi in armonioso contatto con il nostro grande alleato. Cosa sarebbe accaduto se ci fossimo messi in urto con la Russia quando i tedeschi disponevano ancora di tre o quattrocento divisioni sui vari fronti? Le nostre speranze dovevano ben presto essere deluse; eppure a quel tempo non v’era altro atteggiamento da prendere.