il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2022
Mahamood ha cantato al Bataclan
C’è una vecchietta accampata di fronte allo spiazzo del Bataclan. Sarebbe piaciuta a Céline. Sorride sperduta ai ragazzi in attesa di entrare, nell’aria sottile, carica di promesse, dell’aprile parigino, il chiacchiericcio che mischia un flirt coi pronostici sul ballottaggio presidenziale. Sette anni fa, dove ora la clochard ha piantato la sua casetta di tela, erano venuti gli U2 a portare fiori per le vittime del massacro e un pianista italiano aveva suonato Imagine. Accanto alla porta del locale di Rue Voltaire, che fu tempio delle sortite istrioniche di Maurice Chevalier, una lapide ricorda con discrezione quanti “furono uccisi o feriti qui il 13 novembre 2015”. Se ti inoltri sul lato sinistro dell’edificio, nel silenzio del Passage Saint-Pierre Amelot non puoi non risentire le voci dei giovani che si calavano giù dalle finestre, pur di sfuggire alla mattanza voluta da una banda di terroristi il cui ultimo superstite (per la codardia del kamikaze che manca al suo giuramento) chiede oggi perdono. Per negarglielo basta entrare al Bataclan: nessuno stucco ha cancellato i fori dei proiettili all’ingresso e sulla scala che dalla balconata scende in platea. Ci vuole uno sforzo titanico per neutralizzare il magnetismo dell’orrore.
“Quando mi hanno mostrato quei buchi, durante le prove”, racconta Mahmood, “mi è venuta una crisi d’ansia. Temevo di bloccarmi. Come fai a concentrarti pensando che in questo luogo si è generata la peggior tragedia della storia della musica? Però le canzoni devono unire, non dividere. E non potevo farmi vincere dall’angoscia col rischio di intristire gli spettatori, che vivendo a Parigi avranno forse avuto amici coinvolti in quell’incubo”. Ce n’erano di sicuro, sabato sera, nel tripudio di 1500 fans, moltissimi italiani, ma non solo: anche il re delle scarpe di lusso Christian Loboutin è venuto ad applaudire l’italo-egiziano, che ce l’ha messa tutta per fare di questo concerto una festa senza retropensieri. E in un set iperrealista, fra trap futuribili, techno-ballate solide come acciaio e persino una melodia pop in arabo, è riuscito nel suo intento. Del resto, il Bataclan è da tempo tornato alla piena attività, ed ha già accolto altri cantanti italiani: Gianna Nannini, Francesco De Gregori. A giorni sarà qui Sfera Ebbasta, mentre Mahmood, una volta archiviato il mini-giro continentale che sta per portarlo ad Anversa, Losanna, Londra, Zurigo, Amsterdam, Madrid e più in là Varsavia, a maggio affronterà con Blanco l’Eurovision Song Contest di Torino (la stessa città dove subito dopo, il 16, partirà il suo tour italiano). Fosse una gara musicale in tempo di pace, i pronostici sarebbero tutti per Brividi. “Ma è impensabile che facciano vincere l’Italia per il secondo anno consecutivo”, si schermisce Mahmood. Non è solo scaramanzia: l’Eurosong è un business da miliardi per il Paese ospitante, vai a sapere dove si spargerà il prossimo bottino. Se l’Ucraina non fosse uno sterminato campo di macerie, sarebbe automatico pensare a un ritorno a Kiev: come sia, le giurie potrebbero convogliare voti in favore della Kalush Orchestra, che ha tre membri arruolati volontari nella resistenza. “Il fattore politico?” riflette Mahmood. “Servisse a qualcosa, sarei il primo a volere la vittoria dell’Ucraina”. A livelli più goliardici, c’è da spuntarla nel derby tricolore con Achille Lauro, riciclatosi dietro i colori di San Marino. Tra i due c’è una giocosa rivalità. “A Sanremo Achille disse davanti a tutti: ‘Ahò, se rivince Mahmood è raccomandato!’”, ride l’autore di Ghettolimpo. “L’unica cosa che mi fa strano è pensare di schierarti contro il tuo Paese. Ma se Lauro ha deciso di rischiare nelle eliminatorie vuol dire che ha coraggio”. Quanto a lui, Mahmood, la vive come una nuova chance: “A Tel Aviv arrivai secondo all’Eurosong, pensai che non mi sarebbe capitato mai più, ma eccoci qui”. Con Blanco, avvistato a far tatuaggi a New York, si sentono spesso. “Abbiamo già registrato la performance d’emergenza, in caso di covid. E spero di non dover togliere la frase ‘mando tutto a puttane’ nel testo di Brividi. Puttana non è una parolaccia, ma un mestiere. Peggio la parola prostituta. Frasi in inglese per Torino? No, ma prepariamo una sorpresa”.
Una delle tante per Mahmood, volato in (quasi) segreto a Los Angeles per misteriose superproduzioni internazionali. Un idolo cosmopolita, che non dimentica la sua radice sarda, come dimostra il coro di T’amo, dedicato alla mamma. “Ha sempre spinto perché mi riconciliassi con mio padre, mandandomi da lui al Cairo più volte, quando ero bambino. La prima a otto anni, io e papà con i cammelli nel deserto. La seconda a 12, però con i cavalli. Senza sella né redini. Li frustavano sul culo e partivano a razzo. Quella volta mi girai e vidi mio padre avvinghiato alla pancia del cavallo, sul punto di cadere. Rideva. Anch’io mi ribaltai, senza farmi male. È da dopo Sanremo che lo non sento. Appena tirerò fiato ci parleremo ancora”.