il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2022
Quei 13 padroni del cibo che affamano il mondo
Poche decine di nomi: Archer Daniels Midland, Cargill, Jbs, Bayer, Chem China, Anhauser. Poche decine di nomi sono tutto il mercato mondiale del cibo: mettono assieme cifre a nove zeri, mentre 1,6 miliardi di produttori fanno la fame nel sud del mondo o faticano a tenersi in piedi nel ricco Occidente, racimolando in media 15 centesimi ogni euro di prodotto venduto. Ormai, per trovare uno che dica questa ovvietà – che pure sta alla base di molte, delle più drammatiche, diseguaglianze globali – bisogna ricorrere a Papa Francesco. Questo è il suo appello del 16 ottobre 2021, quando il caro energia stava già svuotando le tavole dei più poveri tra i poveri: “Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato”.
Pure il pane dell’affamato infatti, e non solo quello delle panetterie-boutique delle Ztl delle nostre città, si fa col grano e il grano è in tutto quattro nomi: circa il 90% del mercato globale dei cereali è intermediato da quattro multinazionali che si chiamano Archer Daniels Midland (Usa), Bunge (Usa, Bermuda), Cargill (Usa) e Louis Dreyfus Commodities (Paesi Bassi). Gli stessi quattro nomi controllano il 70% di tutte le materie prime agricole (oltre ai cereali, riso, olio di palma, zucchero, ecc.). Per capirci, Cargill nell’anno fiscale giugno 2020/giugno 2021 ha dichiarato 135 miliardi di dollari di ricavi, Adm 86 miliardi, Bunge 60 miliardi nel 2021 e Louis Dreyfus 50 miliardi: i profitti netti cumulati si aggirano sui 15 miliardi.
Qualunque sia il marchio sul pane, sulla bistecca di soia, sul riso che acquistate al supermercato sappiate che quasi sempre dietro ci sono quei quattro nomi. Una faccenda che ha ricadute enormi. Se un pugno di aziende sono il mercato sono loro a decidere il prezzo, a decidere chi vive e chi muore, cosa, dove e come viene coltivato: per questo, ci dice la Fao, in pochi decenni le grandi monocolture care alle multinazionali hanno ridotto del 75% la biodiversità sul pianeta, a non dire della deforestazione, che nel decennio 2010-2020 s’è mangiata una superficie grande come l’intera Spagna.
Ma mica è finita qua. Per fare un albero, ma pure il grano e tutto il resto, ci vuole un seme, si sa, e i semi sono quattro nomi: dopo una serie di fusioni negli anni scorsi ChemChina (che in Italia ha quasi mezza Pirelli), Bayer, Corteva (ex Dow-Dupont) e il consorzio francese Limagrain controllano quasi il 60% delle sementi a livello globale, un mercato da 42 miliardi di dollari nel 2020. E pure i fitofarmaci per l’agricoltura sono quattro nomi: tre sono gli stessi delle sementi, la quarta è la tedesca Basf al posto dei francesi di Limagrain, e in quatto valgono il 66% di un settore che fattura quasi 60 miliardi. Un mostro a cinque teste da centinaia di miliardi di di dollari di ricavi annui che fa il bello e il cattivo tempo sui contadini dell’intero pianeta. E se a quei poverini serve un trattore, una mietitrebbia o altri macchinari agricoli? Questo mercato da 126 miliardi di dollari annui è per metà appannaggio di quattro imprese: Cnh Industrial (controllata dalla Exor degli Agnelli e basata in Olanda), le statunitensi Agco e Deere, la giapponese Kubota. Pochi proprietari, molti produttori, miliardi di consumatori: lo schema funziona in tutti i recessi del mercato del cibo. La carne ad esempio – su cui l’associazione Friend of the Earth realizza un annuale Meat Atlas – è una sorta di epitome dell’irrazionalità del modello di produzione del cibo e della sua tendenza a creare enormi oligopoli (tanto più che un bel pezzo della produzione agricola serve a produrre cibo per gli animali). Negli Usa, ad esempio, quattro compagnie controllano l’85% del mercato: le brasiliane Jbs e Marfrig, le statunitensi Tyson Food e (ancora) Cargill. Il colosso Jbs, per capirci sulle proporzioni, produce in 15 Paesi e fa impallidire i concorrenti: macella 75mila bovini, 115mila suini, 14 milioni di polli, tacchini e galline e 16mila agnelli tutti i santi giorni. La seconda in classifica, Tyson Food, si difende comunque con 22mila bovini, 70mila maiali e 7,8 milioni di polli ogni 24 ore.
La situazione non cambia se si osserva la cosa dall’interno di un negozio invece che dai campi. Secondo un report 2017 di Coldiretti nella grande distribuzione i primi dieci grandi rivenditori di generi alimentari coprono il 30% delle vendite mondiali (dal colosso Walmart ai tedeschi di Schwarz Group, quelli di Lidl, fino ai francesi di Carrefour, in attesa della crescita scontata di Amazon). Dati coerenti con quelli di un’inchiesta realizzata a fine 2021 dal Guardian con l’associazione Food&Water Watch: negli Stati Uniti quattro compagnie – Walmart, Costco, Kroger e Ahold Delhaize – controllano il 65% del mercato retail del cibo. E anche i marchi produttori non sono da meno: quattro o cinque società pesano per metà o due terzi delle vendite dell’80% dei prodotti alimentari. Un paio di esempi: il gigante Kraft Heinz (in Italia possiede diversi marchi, ad esempio Plasmon) compare dodici volte tra le società leader nella vendita di singoli prodotti che spaziano dagli insaccati al caffè fino ai succhi di frutta; il colosso belga Anheuser-Busch InBev domina il mercato della birra con più di 600 marchi e non solo Budweiser o Beck’s, ma pure birre di nicchia che gli appassionati vanno a cercarsi in negozi specializzati pensando di avere a che fare con un piccolo produttore. L’intero sistema è pensato per pompare utili verso azionisti e manager illudendo i consumatori (dei Paesi ricchi, ma non solo) di poter scegliere sulla base della propria irripetibile individualità, mentre si estrae valore sfruttando agricoltori, lavoratori e risorse naturali.
Il cibo è una commodities come le altre, e si potrebbe dire che lo è sempre stata, ma oggi l’intera filiera dal campo allo scaffale è un prodotto finanziario ben più che fisico. Come per tutto il resto, anche questa slavina inizia negli anni Ottanta (il classico natalizio Una poltrona per due del 1983 racconta una speculazione sui futures del succo d’arancia): il mercato finanziario del cibo, che ovviamente esisteva già, è stato deregolamentato insieme a tutto il resto, diventando via via sempre più astratto e attirando sempre più soldi. Di fatto oggi il prezzo di materie prime come il grano ha più a che fare con la finanza che coi costi di produzione o con la domanda, tanto più che a metà del decennio scorso, per reagire a una fase di prezzi bassi delle materie prime agricole, tutto il settore è stato interessato da fusioni e operazioni societarie che hanno creato gli assurdi oligopoli che abbiamo descritto qui sopra.
Una filiera così estesa e ricca (in Italia nel 2021 valeva 575 miliardi, il 32% del Pil) spartita tra poche società è un fatto che finisce per modellare il mondo: il loro potere rende obbligatori l’agricoltura e l’allevamento industriali standardizzati, che producono per la grande distribuzione e le mega catene di ristoranti, meglio se su enormi appezzamenti di terreno delle stesse multinazionali (il cosiddetto “land grabbing”, che interessa la stessa Europa, Romania in testa). Lo spreco di cibo non è un accidente, ma un perno di questo sistema.
Resta da chiedersi: chi sono, dietro le società, i padroni del cibo che “finiscono col tenersi il pane dell’affamato”? Sono i soliti noti e, al solito, puntano su tutti i giocatori: fondi come BlackRock, Capital Group, Vanguard Group, Sun Life Financial, State Street e il Fondo pensioni norvegese (che non è il piccolo e bonario investitore che il nome farebbe presumere) hanno partecipazioni in molte multinazionali del cibo – teoricamente concorrenti tra loro – ma al gioco partecipano anche grandi investitori privati (Warren Buffet controlla Kraft Heinz col fondo 3g Capital) e qualche banca (Crédit Agricole, Deutsche Bank, ecc.). Sono speculatori? Forse se lo si intende in termini morali, ma un sistema in cui i lupi decidono per gli agnelli ha ben poco di morale.