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 2022  aprile 25 Lunedì calendario

In morte di Paolo Mauri

È stato un uomo spiritoso e colto. Si poteva tranquillamente riconoscergli quest’ultimo aspetto. Ma l’altro veniva fuori in maniera sorprendente nei contesti più diversi. Magari a cena o durante una riunione. Era il suo modo di sdrammatizzare o rendere interessante una conversazione, un contatto, un incontro. Paolo Mauri per più di vent’anni è stato alla guida delle pagine culturali di Repubblica. Vi chiederete che ruolo effettivo vi abbia svolto. Ebbene, non ho incertezza alcuna nell’attribuirgli una posizione fondamentale per aver reso quelle pagine tra le più belle e interessanti degli ultimi trent’anni.
Eugenio Scalfari le aveva fin dall’inizio volute diverse. Che fossero non più la classica “terza pagina”, ma un paginone posto al centro di un giornale che era nato nel gennaio del 1976 e molta strada avrebbe fatto. A chi gli chiese il perché di quello spostamento Scalfari rispose che la nuova collocazione avrebbe dovuto rappresentare il “pantheon” che un giornale così giovane non poteva per tradizione vantare. Ma bastava crearlo, bastava dargli la giusta dignità culturale. Giunsero così i primi nomi della cultura che cominciarono a firmare quelle pagine: Alberto Arbasino, Attilio Bertolucci, Alfredo Giuliani, Antonio Tabucchi, Giuliano Briganti. Sono le prime straordinarie figure che mi vengono in mente. Più tardi si aggiunsero Cesare Garboli, Mario Bortolotto e Pietro Citati che Scalfari aveva corteggiato a lungo per averlo come firma prestigiosa di Repubblica. Quelle pagine furono dirette prima da Rosellina Balbi (in origine Scalfari le aveva affidate a Enzo Golino).
Poi, dopo la sua scomparsa, toccò a Paolo assumerne la guida. Lo fece con discrezione e tolleranza. Come Rosellina, aveva imparato a curare personalmente il rapporto con i collaboratori importanti. Condurre quelle pagine, così affollate di “primedonne” non era facile. Bisognava avere un orecchio predisposto all’ascolto. Paolo poteva passare ore al telefono assorbendo a volte gli sfoghi, altre ancora i dubbi o le perplessità di chi in quel preciso momento gli stava parlando. È stato sotto questo profilo un incassatore straordinario.
Non l’ho mai visto trascendere o arrabbiarsi. Né alzare la voce. Ma in quella postura mentale non c’era niente di arrendevole, niente che potesse compiacere l’altro, solo perché magari l’altro era la pregevole firma che arricchiva Repubblica. La sua guida fu un insieme di competenza e di resistenza. Sì, la capacità di incassare e di resistere all’usura di un lavoro che dietro le apparenze del navigare in acque tranquille, celava lo sforzo prolungato dell’impegno speso giorno dopo giorno. Ho pensato, e non sono stato il solo, che Paolo fosse la persona giusta al posto giusto. Una specie di missionario laico il cui spirito di servizio è stato un po’ da esempio.
Un giorno gli chiesi perché avesse scelto la carriera giornalistica preferendola a quella del professore (si era laureato con Natalino Sapegno e Alberto Asor Rosa) che per qualche tempo aveva esercitato. Mi rispose che un po’ fu il caso, ma anche il desiderio di non marcire aspettando una carriera, quella universitaria, che forse avrebbe richiesto troppo tempo. E poi, aggiunse: «C’è già una professoressa in famiglia, Luana, mia moglie».
Ora che Paolo non c’è più, se n’è andato a 77 anni, mi chiedo come sia stato il nostro rapporto di collaborazione e cosa ha significato prendere il suo posto una volta che andò in pensione. Abbiamo avuto punti di vista diversi e talvolta, assai impulsivamente, gli sottolineavo il disaccordo per certe scelte. Ma alla fine credo che abbia avuto ragione lui. Perché Paolo ha davvero rappresentato ciò che di più intimo quelle pagine espressero fin dall’inizio: cioè essere l’habitat nel quale sostare prendendosi tutto il tempo necessario alla lettura. Se ci pensate è straordinario. Scalfari aveva immaginato un giornale concepito proprio così: con una prima parte arrembante e una seconda arricchita dalla cronaca. In mezzo la sosta, il riprendere fiato con i migliori nomi che la cultura nazionale e internazionale offriva: da Umberto Eco a Maria Corti, da Claude Lévi-Strauss fino a Milan Kundera. A proposito di quest’ultimo nel 2008 scoppiò un caso increscioso.
Lo scrittore ceco venne accusato di delazione dalla rivista praghese Respekt. È una storia che risale ai primi anni Cinquanta, quando Kundera era ancora un giovane studente. Gli autori dell’articolo sostenevano di avere tra le mani il dossier della polizia che provava il coinvolgimento del futuro scrittore nell’arresto di Mirolslav Dvoracek, un ex pilota reclutato dai servizi segreti americani. La notizia esplosiva stava intasando le agenzie di tutto il mondo. Finalmente, su un’agenzia italiana, giunse la smentita di Kundera. Non ci sembrò sufficiente. Occorreva sentirlo. Dissi a Paolo che doveva essere lui a chiamarlo. Assistetti a una telefonata tranquilla, senza imbarazzi né reticenze. Paolo mi parve sollevato. Kundera respinse ogni accusa. Mi colpì, alla fine del breve colloquio, la sobrietà con cui Paolo aveva affrontato quell’uomo ferito da una più che probabile calunnia. Poi si mise a scrivere nell’urgenza di quelle pagine che di lì a poco andavano chiuse.
Paolo Mauri è stato, al di là del lavoro giornalistico, un competente critico letterario. Ricordo che agli inizi degli anni Ottanta, insieme a Stefano Giovanardi, Luigi Malerba, Walter Pedullà, Alfredo Giuliani, Nico Orengo, Gianpaolo Dossena e altri, aveva dato vita alla rivista Il cavallo di Troia. Fu un esperimento tra il goliardico e il provocatorio che Paolo diresse per qualche anno. Credo che quell’impegno rispondesse al suo lato giocoso, spesso tenuto volutamente nascosto. Non è un caso che nel suo lavoro di critico abbia privilegiato quella letteratura italiana, in un certo senso minore e stravagante, ma non per questo meno nobile: dall’amato Guido Gozzano a Gianni Celati, dallo sperimentalismo di Luigi Malerba agli incubi ministeriali raccontati da Augusto Frassineti. Esordì, da buon milanese, con un lavoro critico su Carlo Porta e la poesia dialettale.
Con Paolo ho continuato una frequentazione negli anni. Il nostro appuntamento – quasi un rito – era il torneo di bocce nelle Marche a casa di Tullio e Alessandra Pericoli. Non so perché, ma quell’incontro di metà agosto l’ho sempre immaginato come qualcosa di molto francese: la campagna, l’orto, gli alberi e poi la vista sulle colline, le macchine che liberamente arrivavano alla spicciolata nel parcheggio interno e infine la gioia di poterci in qualche modo ritrovare. Forse oggi la parola “gioia” ha esaurito il proprio compito. Forse oggi viviamo in una spenta decadenza, dentro qualcosa che assomiglia alla parola “buio”. E mi torna in mente uno degli ultimi libretti che Paolo scrisse proprio sulla parola “Buio”: 49 brevi racconti per declinare un’esperienza che ci trascina nelle più diverse situazioni: dal cinema, al bosco di notte e agli occhi che un giorno o l’altro decidono di chiudersi per sempre. Quando il sonno tutto sospende e il cuore si fa muto.