La Stampa, 25 aprile 2022
Sull’immortalità dei Rolling Stones
A volte ritornano. Un modo di dire che ben si applica al rock, dove decine di band date ormai per disperse, evaporate, scatafasciate senza pietà si sono rifatte vive, a volte anni o decenni dalla loro ultima incarnazione. Nel caso dei Rolling Stones, ritornano sempre.
Sempre è l’essenza dell’immortalità. E gli Stones, lo sanno i fan della prima generazione e ancora meglio quelli recenti (generalmente i figli, o meglio i nipoti di quelli che li hanno amati fin dall’inizio) sono immortali. Non nella memoria, come si dice sempre con un po’ di retorica dell’arte. No no, sono proprio immortali. Come altro definire una band che festeggia quest’anno i suoi 60 anni di ininterrotta dominanza sul mondo del rock’n’nroll, che ha perso pezzi ed anime lungo la strada ritornando sempre su un palco, da quelli spogli degli Anni ’60 a quelli faraonici di adesso, customizzati per ogni tour da qualche prestigioso designer di palco per rendere viva l’esperienza anche a chi si siede a 100 metri da quegli omini che come formichine corrono e si muovono e laboriosamente e rumorosamente si guadagnano il pane?
Gli Stones sono immortali tanto quanto lo è il r’n’r (e, credetemi, lo è: è questione di fede): 60 anni da quegli esordi nei piccoli club di blues e jazz della periferia londinese, una trentina di album (sempre più radi dagli Anni ’90, l’energia è ormai tutta nelle performance, come dargli torto?) di cui quelli a fine Anni ’60-inizio 70 – l’età dell’oro – fra i più sanguigni e densi ed estatici mai prodotti sul pianeta Terra, ma non ce n’è uno che non abbia qualche brano di una playlist ideale. Altrettanti album dal vivo, non parliamo delle compilation e dei (pochi) progetti solisti. Tanto materiale su dvd, come i concerti in tutto il loro eccitante splendore: Shine a Light, girato da Scorsese con telecamere messe ovunque sul palco, e quello del tour sudamericano, Olè Olè Olè, con i mega concerti a Rio e Cuba sono imperdibili. Una serie di rockumentaries nei quali ormai raccontare esplicitamente tutto – vizi e virtù, in egual e gigantesca misura – di cui Crossfire Hurricane è il mio preferito: intimo e geniale, loro non si vedono mai, solo le voci che commentano le immagini della loro storia. Duecentoquaranta milioni di dischi venduti, e io ho fatto la mia parte. Il loro nome ufficioso è quello della «più grande r’n’r band del mondo», anche se ogni tanto qualcuno viene a contenderlo: «Ogni notte "the greatest r’n’r band in the world" è una band diversa», ha detto generosamente Keith di recente, ma secondo me è solo una sorta di bugia a fin di bene.
E, con tutto quello che è successo in mezzo, è persino ancora attiva la rivalità con i Beatles, che regalarono loro il loro primo hit I Wanna Be Your Man (anche se con un commento sarcastico, chissà se vero, tipo «era una canzone che avevamo scritto per Ringo»). Sono stati amici dietro le quinte, anche perché il territorio di conquista – fama a parte – era oggettivamente diverso: blues e rock per i londinesi, mentre i ragazzi del Nord hanno creato musica con una dose di fantasia e sperimentazione a 360°. Recentemente McCartney ha detto: «Non son sicuro che dovrei dirlo, ma gli Stones sono una cover band di blues... Credo che noi abbiamo gettato una rete un po’ più ampia». Con il suo British humour Mick nel concerto di Los Angeles ha replicato: «Oh, poi faremo delle cover di blues e Paul ci verrà a dare una mano». Le due colonne del tempio, papà e mamma, lo yang e lo yin, il grezzo e il patinato, l’infinito e oltre: che tristezza non ci fossero mai stati a contendersi il ruolo del più grande.
Gli Stones hanno perso un anno fa Charlie Watts, un tuffo al cuore per i fan e sicuramente per loro, quando avevano già deciso che per motivi medici Steve Jordan avrebbe fatto il supplente per un tour per poi restituirgli il posto. Lo aveva detto Charlie stesso a Keith, molti anni prima: «Se ci fosse mai un altro con cui lavorare, il vostro uomo è Steve», la cui esperienza con Keith torna indietro fino agli Anni ’80.
Dicono che ora la ritmica, in coppia un altro maestro come Darryl Jones al basso, è ancora più potente. Certo, lo stile di Charlie, che del suo background di jazzista convertito aveva portato in scena la rilassatezza di quello che sa che non deve picchiare mai (sui tamburi), mancherà. Lui che, non ci si crede, sembrava quello più sobrio e scevro dalla vita spericolata, è stato il primo ad andarsene. Non saranno più in quattro a stringersi a coorte quando alla fine faranno la passerella trionfale, ma c’è un omaggio per lui: generalmente al terzo pezzo – qualunque sia, le scalette cambiano – e la sua immagine nei quattro ledwall giganteschi farà scendere lucciconi a più di un presente.
Per il resto, non abbiate neanche un attimo di dubbio, accendete il vostro piccolo mutuo e sciamate verso San Siro: le rughe come canyon di Mick (uno dei più grandi cantanti di tutti i tempi, ricordiamocelo) e il suo miracoloso muoversi senza sosta a 78 anni, la gioia di Ron del vivere con gli amici una giovinezza infinita, quelle pennate sulla seicorde che Keith fa in totale e lasciva rilassatezza fanno parte della Storia, incredibile che l’Unesco non le abbia ancora dichiarate patrimonio dell’umanità. E non chiedetevi perchè siano ancora là sopra, a suonare per due ore: «È quello che faccio», risponderà ridendo Keef.
Non è solo rock’n’roll, è mitologia contemporanea. E ci piace ancora da matti.