Corriere della Sera, 25 aprile 2022
Biografia di Carlo Pesenti raccontata da lui stesso
Le famiglie con più di 4 figli in Italia sono più di 190 mila. Nemmeno tanto poche. Ma in quella di Carlo Pesenti, i figli sono sei, nati tra il 1990 e il 2006. Cinque maschi e, l’ultima, Margherita, una femmina. Portano un cognome pesante. A esserne convinto è proprio lui, Carlo. Una delle famiglie imprenditoriali più note in Italia. Rappresentante di quel grande Nord che, come nel suo caso, da quasi 160 anni è sinonimo di impresa. Ma anche di quella ritrosia che fa conto più sui numeri che sulle parole per raccontarsi. Classe 1963. Non è un anno qualsiasi. Il nonno Giulio Natta è il papà di sua madre. E proprio in quell’anno vince il premio Nobel per la chimica. È il terzo Carlo della dinastia in cinque generazioni. Una famiglia che è stata per oltre un secolo legata a un business, quello del cemento. «Ma arriva un giorno nel quale ti rendi conto che per quanto tu voglia innovare, crescere, espandersi resta un qualcosa legato al passato. E allora devi fare un passo verso il futuro. Chiederti se lo stai facendo perché l’hai sempre fatto o se invece si deve scartare, scegliere nuove strade per la famiglia e, se permette, anche per il Paese». Carlo Pesenti si guarda attorno. Il suo ufficio, appena rimodernato, è in quel palazzo che dal Dopoguerra è la sede dell’Italmobiliare, da sempre il cuore del gruppo. Che oggi impiega in Italia più persone della vecchia Italcementi e spazia dall’alimentare allo style alla meccatronica.
Da quel palazzo nel cuore di Milano che dal 1498 è della famiglia Bigli, poi della contessa Samoyloff discendente di Caterina Prima di Russia, moglie di Pietro il Grande, un altro Carlo, il papà di Giampiero a sua volta padre di Carlo, fa diventare quella che è la finanziaria di famiglia un gruppo che spazia dalle assicurazioni Ras alle automobili Lancia, dal cemento alle banche con Ibi. Toccherà a Giampiero Pesenti rimettere ordine ed evitare che l’eccesso di diversificazione metta a rischio l’intero gruppo.
Non dev’essere stato facile quando nel 1984 scompare suo nonno Carlo. È un gruppo enorme. Troppo...
«Sì, bisogna decidere cosa fare. Quando muore il nonno, mio padre si ritrova a capo di un insieme di società frutto del dopoguerra italiano. Era un Paese ricco di opportunità che il nonno aveva colto seguendo le sue passioni, come l’auto, come la Lancia. Ma i tempi sono cambiati. Ci si deve focalizzare. Mio padre capisce che è finita la prima fase di Italmobiliare».
Il ritorno al cemento...
«Il ritorno al cemento. Su quello, da ingegnere, è focalizzato. Mio padre è sempre stato ingegnere nel pensiero e nella cultura. Ha fatto quello che andava fatto. Vendere la Ras o le banche fu una scelta strategica per riconcentrarsi sull’industria del cemento che nei decenni a seguire poteva assicurare sviluppo e cash flow. Significava rimettere al centro del capitalismo italiano la famiglia Pesenti, non per esibizione personale, credo fosse come un compito da svolgere, un destino che era scritto dal primo Novecento».
Anche perché sua mamma era figlia di un Nobel, l’unico premio Nobel della chimica italiano, Giulio Natta...
«Sa, mio nonno Natta è scomparso quando io avevo 16 anni. Lo ricordo nella casa di San Vigilio, nelle colline sopra Bergamo, una figura lieve. A quella età non comprendi appieno la straordinarietà del Nobel. Una persona di famiglia riconosciuta come scienziato da tutto il mondo. Poi guardi le sue foto a Stoccolma, vedi lo straordinario lavoro che lui e il suo team, i suoi assistenti al Politecnico hanno fatto. Vedi come chi ha lavorato con lui ci tiene a mantenere viva la sua memoria, persone alle quali bisogna essere riconoscenti. E capisci l’eccezionalità della persona».
Ma all’inizio?
«Solo col tempo ho compreso le due vite parallele vissute in casa mia: quella scientifica di mio nonno Giulio e di mia madre Franca e quella ingegneristica di mio nonno Carlo e di mio padre Giampiero. Due modelli tra loro complementari ma diversi: visionari i primi, concreti e pragmatici i secondi».
E oggi, in famiglia, chi è la visionaria, sua moglie?
«Molto di più. Ho conosciuto Federica giovanissimo, io ventunenne lei non ancora maggiorenne, ci presentarono amici comuni. Da allora siamo insieme ed è la mia compagna di sempre. Lei è stata ed è il motore della mia vita. L’energia e il coraggio per affrontare passaggi importanti o anche semplici temi della quotidianità un po’ complicati con una famiglia così numerosa sono il patrimonio che in tutti questi anni abbiamo condiviso. I nostri sei figli sono la testimonianza più bella di questo legame. Anche ora, da nonni, la storia si ripete».
Sarà anche per questo se parla così spesso di sostenibilità... Anzi nel 1999 lei fa uno dei primi bilanci di sostenibilità in Italia, quello della Italcementi.
«Le prime scelte sono state fatte d’istinto. I figli non erano ancora sei, ma erano già 4. Non puoi avere figli e non pensare al loro futuro in senso ampio, in senso globale. È forse un fatto di responsabilità mi verrebbe da dire, in forma diretta direi di conservazione della specie. A colpirmi molto sarà il libro “Plan B” di Lester Brown, il fondatore del WorldWatch Institute. Ma è del 2003. E lo stesso vale per le aziende, che si trasformano, che cambiano ma per le quali bisogna avere una visione di lungo periodo».
Anche perché quando lei entra nel gruppo è il 1989. Anni non facili per il Paese. Terrorismo. Di lì a poco arriva il ciclone Mani Pulite. Gli anni della profonda crisi...
«I primi anni Novanta sono stati un periodo molto difficile per il Paese. Il sistema imprenditoriale italiano scopre la necessità, direi l’obbligo inderogabile, di rivedere il proprio ruolo etico. Anche mio padre fu coinvolto in alcune inchieste che tuttavia non sfociarono in sanzioni».
Non deve essere stato semplice per un papà così austero.
«L’austerità di mio padre derivava dalla sua educazione e dalla sua formazione. Era cartesiano nelle sue scelte aziendali e personali. Credo fosse anche un modo per affrontare la sua timidezza. Metteva la coccarda di Cavaliere del lavoro solo alla festa del 2 giugno e in giunta di Confindustria ci andava senza. Anche la Legion d’onore la ripose in un cassetto e non mi sembra di avergliela mai più vista all’occhiello. Ma questa austerità, come dice lei, era una cifra di tutta la famiglia, che cerco di trasmettere anche io ai miei figli».
Purché non diventi indifferenza.
«Vede, mio padre Giampiero era una persona molto attenta ai rapporti personali, sinceri, soprattutto con gli amici e i collaboratori più vicini. Un uomo generoso nel silenzio. Quando vendemmo le colonie in Liguria, che in azienda non venivano più utilizzate, l’importo, molto rilevante, fu in poche settimane integralmente devoluto all’ospizio di Bergamo che si stava ristrutturando. Era onorare un antico pegno di solidarietà».
Ma nonostante questa stima lei a un certo punto decide di vendere quello a cui suo padre si era dedicato, la Italcementi.
«La cessione di Italcementi è stata vista come una operazione di retrovia, di abbandono dell’Italia, di liquidazione di un asset industriale del Paese. Oggi, a sei anni di distanza, Italmobiliare ha dimostrato l’importanza di saper cogliere le trasformazioni economiche e di mercato, ha saputo consolidare il proprio ruolo nella Italmobiliare 3.0 come mi piace dire per sintetizzare la sua trasformazione. Il perimetro aggregato di oggi in Italia è molto più grande della Italcementi Italia di allora. Un rammarico mi è rimasto, la dispersione del grande lavoro fatto sulla innovazione di prodotto, ma so che oggi i tedeschi lo stanno recuperando. Ma anche in una riflessione di sistema Paese se avessimo continuato a gestire l’attività cementiera avremmo dovuto ridurre la nostra presenza sui mercati maturi per allargarci solo su mercati emergenti in crescita. Italcementi in Italia sarebbe diventata un’azienda che incassava dividendi dalle altre attività sparse nel mondo con un apporto assai ridotto allo sviluppo del Paese».
Cosa è stata la prima cosa fatta dopo la nomina, nel maggio 2014, come consigliere delegato di Italmobiliare?
«Ho smontato la struttura estera delle società del gruppo, modelli molto usati nei primi anni Duemila ai fini fiscali ma che generavano un continuo contenzioso con il fisco. Infatti, dopo il 2015 non abbiamo più avuto contestazioni. Mi sembrava una scelta giusta, di responsabilità sociale».
E adesso siete una holding di partecipazioni...
«Certo, ma Italmobiliare oggi con la sua strategia di partecipazione allo sviluppo attraverso il controllo o le minority in importanti marchi del made in Italy ha una missione a mio avviso più sistemica. Quando ho assunto la direzione generale di Italmobiliare oltre 20 anni fa, la holding aveva già percorso, con la cessione delle attività di Franco Tosi alla Abb, lo stesso tracciato anche se in misura più ridotta. Pensi che già allora la holding aveva costituito una unità per il reinvestimento della liquidità generata da quella cessione. Acquisimmo aziende nel settore della gestione dell’acqua, del packaging, in Credito Italiano e altre attività in una rotazione di partecipazione dettate da una visione congiunturale di medio periodo e di opportunità di valorizzazione dell’investimento. Non dobbiamo dimenticare che Italmobiliare è quotata da più di 40 anni; è controllata dalla nostra famiglia ma risponde anche agli azionisti terzi, al mercato».
A fare i conti con altri è abituato. Nel 2004 diventa ad di Italcementi e dice del padre: è un tandem siamo in due a pedalare...
«I passaggi generazionali sono sempre visti in termini antagonistici. Quella dichiarazione voleva dire a tutti i nostri dipendenti e al mondo esterno che avremmo lavorato insieme. E visto che la bicicletta mi piace l’esempio del tandem mi sembrò azzeccato».
E adesso i suoi figli?
«Hanno avuto la fortuna di studiare e lavorare molto all’estero. Ma tornano. E questo è un buon segno per il Paese. Giampi dopo aver lavorato in Prysmian e a Singapore oggi lavora con l’Officina Santa Maria Novella. Giulio ha lavorato in una banca svizzera, la Vontobel e oggi è a Clessidra. Roby dopo essere stato a Stanford ha lanciato Callmewine, un e-commerce...».