Corriere della Sera, 25 aprile 2022
Macron rieletto presidente
Aldo Cazzullo, Corriere della Sera
Prima l’inno europeo, poi la Marsigliese cantata da una mezzo soprano egiziana. Emmanuel Macron esulta sullo sfondo della Tour Eiffel. Ma l’europeismo ha vinto una battaglia, non la guerra. Marine Le Pen è sconfitta; il populismo e il sovranismo, no. Più che una festa di popolo, questo ai Campi di Marte è un set per i media. Più che un boato, è un frastuono di fotografi e cameramen ad accogliere la notizia che corre sul maxischermo: Macron rivince con il 58,5%; altri cinque anni all’Eliseo, e poi il sogno di diventare il primo presidente eletto degli Stati Uniti d’Europa.
Il pubblico intona una Marsigliese fiacca, presto sovrastata dalla musica techno del dj. Ad attendere Macron sotto il palco ci sono più giornalisti che militanti con bandierine tricolori: mai visti tanti reporter tutti insieme, neppure da Trump nel 2016; code infinite per entrare nel parco, con i cani campioni di caccia all’esplosivo ad annusare gli zaini («portatevi il cibo da casa, non è previsto buffet» avvisava prudentemente lo staff dell’Eliseo). Nel Paese, l’entusiasmo è tale che l’ambasciata americana avvisa su Twitter del pericolo di moti spontanei di protesta; non è difficile prevederne nei prossimi mesi, soprattutto se Macron tenterà di realizzare la riforma delle pensioni. Il 58,5% è meglio dei sondaggi della vigilia; ma è peggio di cinque anni fa. Non è una vittoria di conquista, ma di risulta. Un mezzo miracolo, in tempo di rivolta contro l’establishment; una mezza delusione, con la destra populista al massimo storico. Macron lo sa: «Molti mi hanno votato non per sostenere le mie idee, ma per opporsi all’estrema destra. Vorrei dire loro che apprezzo questo senso del dovere, l’attaccamento alla Repubblica, il rispetto delle differenze». I Campi di Marte erano il luogo delle ultime passeggiate di Mitterrand, come da titolo di un film struggente; ma appartengono allo scenario monumentale e destrorso di Parigi, a un passo dalla tomba di Napoleone. Nel 2007 Nicolas Sarkozy cantò – malissimo – la Marsigliese con Mireille Mathieu in Place de la Concorde, prima di infilarsi nello sventurato party al Fouquet’s, locale vip poi devastato dai Gilet gialli. Nel 2012, François Hollande fu conteso sul palco della Bastiglia tra la madre dei suoi quattro figli, Ségolene Royal, che lo baciò sulla guancia, e dalla compagna di allora Valérie Trierweiler («baciami sulla bocca!»). Cinque anni fa, Macron scelse uno scenario neutro e centrale: il Louvre, culla della cultura. Stavolta arriva a piedi sotto la Tour Eiffel, mano nella mano con la moglie Brigitte, che ha compiuto 69 anni in campagna elettorale. Fa suonare ancora una volta l’inno europeo. E parla senza iattanza, cercando la solennità ma anche un tono preoccupato per il disagio sociale, attento ai francesi che non si sono riconosciuti in lui. «I prossimi cinque anni non saranno una continuazione dei precedenti. Si apre un’era nuova. Dobbiamo liberare le forze creatrici, culturali, imprenditoriali. Dobbiamo promuovere l’invenzione collettiva di un metodo rifondato, al servizio dei giovani, del Paese». È una serata di sollievo, più che di gioia. Ha il sapore dell’impresa il fatto che a conquistare per la seconda volta l’Eliseo sia un europeista laureato all’Ena, la grande scuola dell’amministrazione francese, formatosi alla banca Rothschild, benedetto dall’establishment parigino, appoggiato dai media, non ostile agli immigrati: tutte le cose – l’Europa, l’Ena, le banche, l’establishment, Parigi, i media, gli immigrati – che la Francia profonda detesta di più. E in effetti, se avesse votato soltanto la capitale, Macron sarebbe quasi al 90%; ma se avessero votato soltanto il Nord de-industrializzato o il Sud terra d’approdo per l’immigrazione, avrebbe vinto Marine Le Pen. È questa la mezza delusione per il presidente che si riproponeva di ridurre la frattura sociale, riunire i francesi, ridimensionare l’ondata populista.
Militanti
Ad attenderlo sotto il palco ci sono più giornalisti che militanti con le bandierine
Così Macron saluta anche chi ha votato la rivale, e ferma i buu che arrivano subito dalla platea: «Vi ho sempre chiesto di non fischiare. Mai. Non sono più il candidato di uno schieramento, sono il presidente di tutte e di tutti. Alla collera e al disaccordo darò una risposta». In termini assoluti, gli mancano tre milioni di voti rispetto al 2017. L’astensione arriva al 28%; ma poteva andare peggio. Sceneggiata fuori dal seggio di Jean Lassalle, candidato situazionista che al primo turno ha superato il milione di voti, celebre per le sue improvvisate (da ragazzo si imbucò nel coro dell’Armata Rossa per cantare davanti al leader dell’Unione Sovietica Leonid Brežnev); stavolta ha ritirato la scheda, l’ha lasciata bianca e l’ha mostrata alle telecamere. Le schede bianche e nulle alla fine saranno più di due milioni e mezzo. Il presidente ha una parola anche per chi non ha scelto: «So che dovrò rendere conto di ciò che farò anche a voi. Nessuno sarà lasciato indietro. Mi impegnerò sull’ecologia, sul lavoro, sulla parità tra uomo e donna…».
L’altra volta, Macron chiuse la campagna elettorale con una bellissima citazione dei Miserabili di Victor Hugo: «Tentare, osare, insistere, perseverare, essere fedeli a se stessi, affrontare il destino corpo a corpo, tener duro, tener testa; ecco l’esempio di cui i popoli hanno bisogno, ecco la luce che li elettrizza» (prudentemente omesso il seguito: «La stessa luce formidabile va dalla torcia di Prometeo alla pipa di Cambronne», quello della parolaccia a Waterloo). Stavolta lo dice con parole sue: «Viviamo tempi tragici. La guerra in Ucraina è lì a ricordarcelo. Al di là dei dubbi e delle divisioni, dovremo essere forti. Ognuno di noi avrà una responsabilità, ognuno di noi conta più di se stesso, perché tutti insieme siamo un unico popolo. E io sono così fiero di tornare a servire il popolo francese». Ricorre più volte la parola Europa, «la nostra Europa». Con lui ha vinto la Francia che crede nella costruzione europea, che trae profitto dalla globalizzazione e pure dall’immigrazione. Con il presidente uscente era schierato l’intero apparato produttivo, dai missili ai macaron, da Le Figaro, controllato dai Dassault (armi), a Françoise Holder, proprietaria delle pasticcerie Ladurée. Ma contro di lui si è espressa la Francia che dall’Europa si sente sopraffatta, dalla globalizzazione tradita, dall’immigrazione assediata.
Ringrazio anche chi mi ha votato non per le mie idee, ma per impedire all’estrema destra di vincere
La battaglia non finisce qui, prosegue con la scelta del primo ministro – probabilmente una donna, difficilmente Christine Lagarde, che serve alla Bce – e con le legislative di giugno. Il presidente faticherà ad avere una maggioranza all’Assemblea nazionale, forse cercherà un accordo con quel che rimane della destra repubblicana. Si giocherà con altre regole: va al secondo turno chi supera il 12,5% degli iscritti: in molti collegi ci saranno al ballottaggio tre o quattro candidati – il mélanchonista, il macronista, il repubblicano, il lepenista – e si vincerà per un pugno di voti. Ieri i mélenchonisti in maggioranza hanno sostenuto Macron, almeno nelle grandi città; meno in provincia e in banlieue. Saint-Denis, feudo del tribuno rosso, è il dipartimento che ha votato meno. I territori d’oltremare, retaggio dell’impero, hanno scelto in massa Marine Le Pen. Cinque anni fa, la Francia ha fatto una scommessa coraggiosa su un trentanovenne di bell’aspetto, che entrò all’Eliseo senza mai essere stato eletto neppure in consiglio comunale. Ieri la seconda potenza europea ha ridato fiducia a un presidente che ha saputo andare contro lo spirito del tempo – il pessimismo, il populismo – contro il vento della storia che dopo la Brexit e Donald Trump pareva spirare in tutt’altra direzione. La pandemia prima, la guerra poi hanno suonato un richiamo all’ordine. Eppure la Francia ha davanti cinque anni duri; e l’Europa pure. Chiusura con Marsigliese affidata alla cantante lirica egiziana Farrah El Dibany. Macron ha accennato a seguirla a mezza voce, poi si è vergognato.
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Stefano Montefiori, Corriere della Sera
Forse ispirandosi alla recente comunicazione creativa del Cremlino, appena 10 minuti dopo il verdetto Marine Le Pen sale sul palco raggiante e dice con un sorriso aperto: «Il risultato di questa sera rappresenta una eclatante vittoria!».
I militanti riuniti al Pavillon d’Armenonville, una grande sala di ricevimenti nel Bois de Boulogne, stavano già lasciandosi andare alle lacrime perché la loro beniamina si ferma al 41% che è sicuramente un risultato considerevole ma, insomma, ha perso.
Marine Le Pen invece non ha alcuna intenzione di mostrarsi delusa. Forse non ha mai creduto davvero di poter vincere, come tanti — primo fra tutti Eric Zemmour — sostenevano, o forse vuole davvero continuare a dare battaglia.
«Non abbandonerò mai i francesi», dice tra gli applausi e le grida di «Marine, Marine, Marine». «Il mio impegno continua più che mai, a partire dalle legislative di giugno. Emmanuel Macron continuerà con le pratiche sprezzanti e brutali del precedente mandato». La sala risponde con entusiasmo, ogni volta che viene evocato il presidente partono i «buuu» dei militanti, e lei non li ferma. Si saprà dopo che prima di salire sul palco la candidata del Rassemblement National ha chiamato Macron per riconoscere la sconfitta e congratularsi, in privato, ma in pubblico non si complimenterà mai con il presidente. Tra i tratti fondanti del nuovo lepenismo ci sono i toni più moderati, meno rabbia e più disinvoltura, sorrisi e uso di mondo, ma anche l’odio senza appello verso quel perfettino di Macron. I giovani qui sono la maggioranza, una ragazza di 24 anni, Nadine, dice che «stavolta pensavamo di farcela, credevo che Marine sarebbe entrata all’Eliseo e che finalmente non saremmo più stati considerati cittadini di seconda categoria».
Tra i francesi c’è chi ha votato Marine Le Pen per dispetto, per sentirsi antagonista almeno un po’, o anche solo con lo spirito di «le abbiamo provate tutte, proviamo pure lei». Ma quelli che sono venuti qui al Pavillon votano per Marine perché condividono le idee, il programma, l’idea ripetuta da tutti che «questa è casa nostra» e che «bisogna salvare la Francia prima che sia troppo tardi» (ovvero prima che le forze della globalizzazione la rendano indistinguibile dagli altri Paesi, e soprattutto prima che gli immigrati si sostituiscano ai francesi). Ma l’altro grande tema è il sentimento di essere assediati, disprezzati, perseguitati, dagli antifascisti per strada e dalle élite macroniste nella società. «Se non vivi a Parigi e non hai due lauree non conti niente per chi sta al governo, Marine è l’unica che si preoccupa di noi», dice Jamime, impiegata di Arras, nel Nord di Parigi.
Se ai tempi del fondatore Jean-Marie Le Pen i militanti del Front National esprimevano con fierezza una certa predisposizione a sentirsi superiori, l’avanguardia dei francesi poco inclini a chinarsi sul destino dei più deboli, immigrati o meno, il Rassemblement National di Marine Le Pen cerca di dare rifugio a chi si sente escluso dalla società, o perché davvero non arriva alla fine del mese, o perché magari ha casa, lavoro, sanità gratuita, scuole e mezzi pubblici funzionanti ma comunque si percepisce ai margini della Francia che conta.
Questa identificazione con Marine paladina degli esclusi «viene da lontano», dice Sébastien Chenu, portavoce di Marine Le Pen che scende nella sala per riconfortare i militanti. Molti non erano neanche nati quando Jean-Marie Le Pen si candidò per la prima volta alle presidenziali, nel lontano 1974. Cinque tentativi il padre Jean-Marie, tre la figlia Marine: otto sconfitte per la dinastia Le Pen.
Un mese fa «MLP» ha detto che «a priori, se non vinco stavolta, non mi candiderò più per l’Eliseo». Ieri sera però ha evitato di ricordarlo, forse per non aprire troppo presto una guerra di successione. Il 41% non sarà una vittoria ma rappresenta un capitale da non trascurare. «I due partiti che hanno strutturato per decenni la vita politica non esistono più», dice Thierry Mariani, che è passato al RN dopo vent’anni da deputato gollista e spera in una grande ricomposizione della destra. Con al centro Marine, «o magari il bravissimo Jordan Bardella», eloquente, elegante, ben vestito, che nel 2027 avrà solo 31 anni. Affidarsi a una specie di Macron post-lepenista sarebbe il colmo.