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 2022  aprile 24 Domenica calendario

Biografia di Amalia Ercoli Finzi raccontata da lei stessa

Le comete portano sfortuna?
«No. Le comete sono un dono che l’universo ci fa: ogni tanto ce ne manda qualcuna per illuminare i nostri cieli. Semmai portano fortuna, a me moltissima». 
Qual è la prima stella di cui ha imparato il nome? 
«Aldebaran, della costellazione del Toro. Da bambina il nome mi procurava meraviglia. Invece la stella più luminosa che non mi stanco di guardare è Sirio. Si individua molto facilmente: se segui la Cintura di Orione, vai oltre, a sinistra, la prima grande stella che trovi è proprio Sirio». 
Amalia Ercoli Finzi brilla di luce propria come i corpi celesti che ama guardare fin da bambina, quando si affacciava al balconcino della camera che condivideva con l’amatissima sorella Elvina a Gallarate, in una stanza più piccola di quella del fratello Angelo, privilegiato in quanto maschio, ma grande abbastanza da far germogliare la curiosità, la determinazione e il talento che l’hanno fatta diventare la «Signora delle Comete». Il 20 aprile ha compiuto 85 anni (auguri!). Ci incontriamo a Milano vicino a quel Politecnico che chiama ancora «la mia casa» e dove ha conquistato ben più di un primato. 
Un ricordo della «sua» guerra. 
«I bombardamenti. Erano una cosa terrificante. Quando veniva avvistato un bombardiere si sentiva una sirena, ma bisognava aspettare la successiva per avere conferma che ci fosse un attacco in corso. In quel piccolo intervallo stavamo tutti in silenzio con il cuore in gola». 
Imparò ad apprezzare il liquore Strega. 
«Era preziosissimo! Serviva a distrarre le guardie al confine, quando si apriva la porticina che permetteva di scappare in Svizzera. Quando fummo sfollati a Cantello, mio padre aiutò moltissimi a fuggire. Sono stati anni durissimi». 
Poi la guerra è finita. 
«Il 25 aprile del 1945 ero in seconda elementare. La campanella suonò alle 10 e le maestre ci rimandarono a casa con un’incoscienza che ancora oggi mi fa rabbrividire. Tornai a casa mano nella mano di mio fratello, mentre i carri armati entravano a Gallarate. Subito dopo cominciarono le vendette: un giorno passò sotto le mie finestre un camion con due fascisti ammazzati...». 
Cosa ha significato per lei la Liberazione? 
«Ricominciare a vivere, a mangiare. Quando vedo qualcuno che o fa le diete o avanza il cibo nel piatto, non lo capisco: io devo ripulirlo tutto, il piatto, perché la fame, soprattutto per i bambini, è proprio una cosa contro natura». 
Qual era la sua fiaba preferita? 
«Cenerentola non mi piaceva per niente, non credevo alla storia delle fate. Invece mi piaceva moltissimo Il gatto con gli stivali. A quei tempi le scarpe erano un bene preziosissimo». 
Le scarpe sono rimaste un suo debole. 
«Sì. Intanto perché ho piedi piccolissimi, 34 scarso. Posso anche dire con un po’ di civetteria che usavo i tacchi alti perché così mi alzavo un po’ e poi perché ho delle belle caviglie: “da gazzella”, diceva un ammiratore. Capisce che con 34 di piede e tacco 12, camminavo sulle punte». 
È la prima donna a essersi laureata in ingegneria aeronautica in Italia. Come è riuscita a iscriversi, vincendo la resistenza della famiglia? 
«Per due ragioni. Una, di carattere: io ci credevo. L’altra, perché ero brava: nel ‘56 la mia era stata la più bella maturità d’Italia, con tanto di lettera del ministro dell’Istruzione Paolo Rossi. Al Politecnico mi iscrissi quell’autunno, mio padre commise l’errore di lasciarmi scegliere. Studiavo per passione. E leggevo tantissimo». 
Libro preferito? 
«Capitani coraggiosi, lo so a memoria! Ci sono l’avventura, il mare, tanti risvolti umani. È un libro meraviglioso: mi ha insegnato l’amicizia, la solidarietà, la giustizia, l’onesta, la lealtà». 
Com’è nata la passione per la matematica? 
«Ce l’ho fin da bambina. La matematica è meravigliosa perché è un linguaggio universale: 2 più 2 fa 4 per noi e per i giapponesi. Quando ottieni un risultato in matematica c’è un momento che è come un delirio: hai raggiunto la verità». 
E perché ingegneria aeronautica? 
«Quando ho finito il biennio formativo ho dovuto scegliere cosa fare dopo e ho capito qual era la mia strada: qualcosa all’avanguardia. Ai tempi l’aeronautica era il massimo. Ancora adesso quando prendo un aeroplano, al decollo, che è il momento più difficile con tutto il combustibile, mi metto bella zitta e conto, milleuno, milledue, milletré, fin quando si alza». 
Ma scusi, perché conta i mille? 
«Ogni parola equivale a un secondo. E siccome so quanto è lunga la pista, so quanto impiega l’aereo per arrivare in fondo e tirarsi su». 
Lei ha costruito una carriera luminosa con cinque figli. Come faceva quando erano piccoli? 
«Me li tenevo in braccio e per fortuna di notte dormivano. Sono quasi coetanei. A volte li mettevo sul tavolo con i piedi a penzoloni e gli davo da mangiare passando con il cucchiaio da uno all’altro. Ho grattugiato migliaia di mele e ho mangiato così tante bucce che non ne ha idea». 
Dov’era il 4 ottobre del 1957? 
«All’università, al secondo anno, a lezione. Qualcuno arrivò dicendo che i russi avevano lanciato un satellite nello Spazio. Io sentii benissimo il bi-bip alla radio. Con lo Sputnik i russi avevano battuto gli americani prima che finisse l’Anno geofisico internazionale». 
E il 12 novembre 2014? 
«A Darmstadt, in Germania, all’Esoc, il Centro europeo per le operazioni spaziali. Il lander Philae era finalmente sceso sulla cometa Churyumov-Gerasimenko. Brindammo. Ma dopo mezz’ora serpeggiava l’idea che qualcosa fosse andato storto. Invece dopo un’altra ora e mezzo lo speaker ci avvisò che il lander, dopo essere rimbalzato, era sceso per la seconda volta». 
Aveva la supervisione della missione Rosetta dell’Esa. E progettò il trapano che scavò la cometa a 510 milioni di chilometri dalla Terra. 
«Prima che Philae atterrasse mi sono messa in un angolo a pregare: Signore, noi abbiamo fatto tutto il possibile, adesso tocca a te». 
Come concilia la fede con la scienza? 
«Benissimo! Perché sono due mondi diversi: la scienza è il mondo della logica e della sperimentazione, la fede è il mondo del trascendente. Nel mio caso la fede è una forma di umiltà: non pensare che sappiamo tutto, ma dire che un Dio buono ci protegge. Cosa ci sarà quando morirò? Non so, mancano i telescopi per guardare al di là. Ma quando ci arriverò, e non manca tanto vista l’età, ho molte domande da fare». 
Lei crede negli extraterrestri? 
«Altroché! Non dico gli ufo con le antenne, ma statisticamente esistono altre forme di vita. Faccia conto dei miliardi di galassie che ci sono nell’universo, dei miliardi di stelle, dei miliardi di pianeti... Vuole che non ci sia un altro tipo di vita? Il problema è un altro: con le conoscenze che abbiamo, soprattutto di fisica, che ci mette il vincolo della velocità della luce, non riusciremo mai a contattare una di queste civiltà intelligenti, perché sono troppo distanti». 
È stata direttrice dei Dipartimento di Ingegneria aerospaziale del Politecnico di Milano. 
«Un periodo durissimo. Il consiglio di dipartimento era formato solo da uomini e li avevo tutti contro per le mie “famose idee innovative” che “potevano venire solo a una donna”...». 
Un esempio? 
«Ho comperato, peraltro con i residui dei fondi di ricerca e con lo sconto, un biposto piccolino. Ricordo le risate, quando lo proposi la prima volta: “Un’idea così poteva venire solo all’Amalia!”. Ma io per lo Spazio avevo fatto costruire agli studenti un satellite su cui sono state fatte tante tesi di laurea. Di aeronautico non avevamo niente, mentre volevo che i ragazzi capissero perché quando tiri la cloche l’aereo s’impenna». 
Come andò a finire? 
«Chiesi a un collega amico di riproporlo dopo un paio di consigli di dipartimento. E, guarda caso, a lui dissero: “Ma che bella idea!”». 
Dei moltissimi riconoscimenti nazionali e internazionali ricevuti, a quale è più affezionata? 
«Forse al Milano Donna, perché mi sento cittadina del mondo, ma lombarda e milanese. Una donna del fare costruito sul pensiero». 
Le hanno mai chiesto di scendere in politica? 
«Una volta, a Trezzano sul Naviglio. E la Dandini mi ha inserito nell’elenco delle donne per il Quirinale. Io la ringrazio, però sono negata. La politica chiede preparazione e competenza: è meglio che ciascuno faccia il suo mestiere». 
È stata contenta di sentire il premier Draghi incoraggiare le donne nella scienza? 
«Lo ha detto Draghi, lo dice chi stima la moglie o la compagna. Ci vuole l’esperienza della capacità della donna che ti è vicino per convincere i maschi che le donne hanno valore». 
Lei ha un marito «d’oro». 
«Le doti che mi hanno incantato nel mio Finzi sono l’intelligenza, la bontà, la lealtà, oltre al fatto che era un bel giovane. L’8 agosto facciamo 60 anni di matrimonio. E sa qual è la cartina di tornasole per sapere se l’uomo è quello giusto?». 
Me lo dica subito! 
«Deve essere come l’aria, che quando c’è non ti accorgi neanche che esiste, ma quando non c’è muori. E poi capisci che è quello giusto se sei disposta che i tuoi figli abbiano i suoi difetti». 
Ha quattro figli maschi e una femmina, Elvina. Vogliamo spendere due parole per l’unica femmina, sua cocca indiscussa? 
«Ah, quanto ho desiderato averla. Tant’è che a partire dal secondo ho preparato sempre un corredino rosa. Ricordo la felicità assoluta di quando la levatrice l’ha tirata fuori per i piedi e ha detto che era femmina. L’Elvina ha un cattivo carattere, pessimo come il mio, ma c’è quel filo rosso che lega noi donne, madri e non, che ha a che fare con la cura, la generosità...». 
Si considera una donna felice? 
«Sì. Non ho rimorsi o rimpianti: quello che volevo l’ho fatto e se non sempre mi è riuscito bene, ho sempre messo la buona volontà. Alla mia felicità concorre, poi, il mio senso della trascendenza: parlo tutti i giorni con il Padreterno, non sempre andiamo d’accordo, ma tanto alla fine decide Lui».