"Downton Abbey" è una sorta di album dei ricordi, anno dopo anno, stagioni dopo stagione, film dopo film. Torniamo al primo incontro con Lady Cora?
«All’inizio recitavo una parte che non aveva una vera definizione. Era più una situazione che un personaggio: una donna che non aveva il controllo sulla propria eredità, il suo denaro cooptato dal sistema. Julian Fellowes ha plasmato i personaggi lentamente, nel corso degli anni, mentre giravamo. Io coglievo le sue scintille e lui rispondeva alle mie reazioni. Cora e io siamo cresciute insieme».
La sua prima scena?
«Indimenticabile, perché le prime scene lo ho girate sola con Maggie Smith. È come partire dalla vetta. Ma ricordo anche la primissima lettura, mai visti tanti attori seduti attorno a un tavolo enorme.Tutti molto nervosi, era una situazione inedita. Poi, quando abbiamo iniziato a leggere, siamo stati rapiti dalla storia così coinvolgente, tutto è improvvisamente decollato, ha preso vita. Eravamo attori e spettatori. Abbiamo iniziato a essere il gruppo solido che è il punto di forza di Downton Abbey ».
Da sette anni, da "Woman in Gold", non girava un film con suo marito, il regista Simon Curtis.
«Sì, quasi non ricordavo che privilegio fosse lavorare cone lui.
Sono fiera di come sia riuscito ad avere cura di tutti sul set»
In che modo "Downton Abbey" ha cambiato la sua vita professionale e personale?
«Penso che mi abbia dato fiducia.
Un successo tale è una iniezione di sicurezza. Soprattutto perché quando sono stata scelta per Downton consideravo seriamente l’idea che la mia carriera fosse più o meno finita. Ero stata un’attrice americana che aveva iniziato molto bene, ma tutto si è fermato quando mi sono trasferita in Inghilterra per sposarmi e avere un paio di figli.
Così mi ero messa a fare molte altre cose, soprattutto molta musica (è la frontman del gruppo Sadie & the Hotheads ndr). Mi ero abituata all’idea di lasciare la recitazione, ma Downton ha completamente ribaltato la situazione. Oggi sento di avere una identità precisa, una consapevolezza profonda. E il successo televisivo ha creato nuove opportunità di lavoro, per me e la band: siamo stati invitati in molti più luoghi a suonare. E mi ha permesso di produrre film, di scrivere un’opera teatrale mia e di portarla sul palco. Tutte cose che non pensavo sarebbero diventate parte della mia vita professionale».
"C’era una volta in America" è uno dei film più amati dagli italiani, citato anche da Sorrentino in "È stata la mano di Dio". Ma all’Independent, nel 2003, lei dichiarò che quel set fu traumatico per le difficoltà con Robert De Niro, l’essere schiacciata tra lui e Leone. E che la scena dello stupro simboleggia quel periodo della sua vita, il successo troppo giovane e un personaggio che era proiezione dei desideri di Noodles.
«Mi colpisce che lei abbia ritrovato quell’intervista di vent’anni fa. Sa, ora, all’età che ho, sono più consapevole. Fin dagli inizi nel cinema il lavoro di un’attrice era in una certa misura quello di soddisfare la visione di una donna che ha un uomo, perché è un sistema gestito da uomini. Le decisioni sono prese dagli uomini.
Questo l’ho percepito sul set di C’era una volta... ma solo con la prospettiva odierna me ne rendo pienamente conto. La maggior parte di noi attrici, anche senza rendercene conto a livello cosciente, ha cercato di soddisfare l’immagine che un uomo ha di noi. Per una giovane donna significa, il più delle volte, essere l’oggetto del desiderio. E quando superi i 40, 50 e 60 anni spesso sei costretta al ruolo di nevrotica, alcolizzata, pazza, anziana repellente. Uno stereotipo che si ripete.
Basta guardare ai film di Woody Allen, in cui la maggior parte delle donne più giovani sono sagge, belle, forti e mature, e quelle più anziane sono tutte nevrotiche, recriminanti, insopportabili. Uno stereotipo che è continuato in modo straziante, specie confrontandolo con i ruoli forti che riusciva a rivendicare e ottenere Bette Davis ai suoi tempi.
Oggi si parla del ruolo delle donne nel cinema, ma le cose sono davvero migliorate? Se guardi ai film di Bette Davis, di Joan Crawford, Katharine Hepburn, i loro personaggi erano interessanti e multidimensionali. Tutto questo si è disintegrato col passare del tempo. La questione è ancora a affrontare».
Come fu l’incontro con Leone?
«Instaurammo subito un bel rapporto. Al primo incontro, prima di farmi avere la sceneggiatura, mi volle vedere in un albergo a New York. Mi raccontò tutto il film, scena per scena, battuta per battuta. Vedevo dalla finestra il sole compiere la sua parabola. E lo ascoltavo rapita, perché ogni sequenza era scolpita nel suo cuore. E anche se sapevo che si trattava di un ruolo che era la visione maschile di una donna, l’ho interpretato con gioia, perché era una visione così bella, la sua. È un film importante, che è rimasto nel tempo, ci sono molte cose che mi inducono ad amarlo».