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 2022  aprile 24 Domenica calendario

Biografia di Diodato raccontata da lui stesso

Del tòpos “musicista bello e dannato” può giocare la carta del bello, non del dannato. Perché Diodato è così. Va di sottrazione, non ama far rumore, a dispetto del suo brano vincitore al Festival del 2020; non ama apparire, proclamare; a suo tempo non amava neanche la sua voce, una delle più belle della musica italiana (“Chiedevo ai tecnici di abbassarla, non volevo sentirla”); non ama i vittimismi, l’io imperante, nonostante la pandemia gli abbia sottratto qualcosa a livello professionale, come la partecipazione all’Eurovision (“Però ci sarò quest’anno tra gli ospiti”. È un risarcimento? “No, solo una bella occasione”).
Ama “far rumore” solo per il concerto di Taranto dell’Uno Maggio, che lo vede tra gli organizzatori insieme a Roy Paci e Michele Riondino: “È impressionante, ma quando se ne parla di meno, la gente si convince che sia tutto risolto, mentre lì si continua ad anteporre la ragione industriale a quella della vita delle persone”.
Lei è nato nel 1981 eppure viene ancora definito giovane cantautore.
Ma è verissimo; non sono un giovane essere umano, ma sicuramente sono un giovane musicista: il mio primo album è uscito quando avevo 31 anni. Spero di diventare pure un vecchio e saggio cantautore.
Da “vecchio cantautore” ha interpretato le sigle finali del programma di Fabio Fazio, con celebri cover.
(Ride) Sì, e dovevo camminare per strada. È successo di tutto.
Cioè?
A Milano una signora palesemente alticcia aveva deciso di dovermi regalare una rosa, peccato che fossi in diretta. Alla fine me l’ha lanciata addosso e, non soddisfatta della mia riluttanza, ha iniziato a spogliarsi.
Oltre alla donna con la rosa, cosa non aveva messo in conto del successo?
(Pausa) In realtà ho avuto molto tempo a disposizione per pensarci, ci sono arrivato tardi; forse l’unico aspetto scomodo è stato il primo periodo dopo la vittoria di Sanremo, quando vivevo perennemente circondato dai paparazzi e sono iniziate a uscire storie assurde.
Tipo?
In particolare, un fotografo, mi seguiva sempre e scattava; poi mi attribuivano storie con chiunque: bastava starmi accanto e c’era il bollino, non importava se fossero solo amici o amiche.
Fluido.
Totalmente; (pausa) poi ognuno di noi vive momenti di imbarazzo personale in cui non si vorrebbe essere visti da nessuno. Venire riconosciuti è l’apoteosi del rossore sul viso; (abbassa gli occhi) in generale le persone mi rivolgono frasi molto carine, di grande affetto, poi l’ubriaco che rompe ci sta sempre.
Un classico.
Ma lo capisco, a volte sono stato ubriaco anche io. Però non molesto.
È mai stato scambiato per un collega?
No, ma questa è la forza del Festival: entri nella vita delle persone, diventi parte della storia di un Paese, non sei più solo un cantante, ma uno che ha vinto Sanremo.
È diventato vip.
Ho letto una frase di David Bowie: “L’unico vantaggio reale del successo è il posto al ristorante”.
Lo sostiene pure Christian De Sica.
Ma è vero. E mangio tantissimo, anzi quando prenoto specifico il mio nome; sono un appassionato di cucina e in questo Roy (Paci) mi ha instradato: conosce un numero spropositato di chef, lo puoi chiamare da ogni punto dell’Italia e lui ti indica il ristorante giusto.
Pagate?
Sempre! Ed è giusto così.
Teme le sue parole?
Devi stare attento a quello che dici, con i riflettori tutto viene amplificato.
È bene o male?
Chi lavora con la parola spera avvenga, quindi uno non si può lamentare.
Fai rumore è diventato un hashtag durante la pandemia. Le dispiace che il suo brano sia molto legato a quel periodo?
Ci ho pensato a lungo; in realtà quel brano aveva dentro di sé altri semi, non solo quelli della canzone d’amore; dentro c’è anche la mia città, Taranto…
Quindi?
Mi sono sentito dentro un flusso di umanità, qualcosa di più importante di me e delle piccolezze che mi hanno portato a scriverla.
A cosa pensa?
In realtà al post vittoria…
E allora?
Dopo il Festival era come se non camminassi più: venivo “spostato”.
Che vuol dire?
C’è una liturgia degli impegni, ed è giusto e bello, fa parte di Sanremo e sarebbe folle tirarsi indietro.
Arriva il “però”.
Un po’ perdi il contatto con la realtà; (pausa) fino quando, durante un incontro con i fan, mi portano un video e vedo un ragazzo affetto da una grave malattia. Era allettato. Eppure con uno sforzo incredibile cantava il mio brano. È stato uno schiaffo: mi ha rimesso in connessione con i veri motivi per cui avevo iniziato a occuparmi di musica.
Quali?
Sicuramente il divertimento e il voler stare bene, ma soprattutto la possibilità di esprimermi. Grazie a quel video ho pensato: “Se una canzone può generare questo, allora tutto ha un senso”; (silenzio) noi cantanti abbiamo la possibilità di amplificare la bellezza o di prendere per mano e attraversare il buio.
Il successo da giovane l’avrebbe bruciata?
Non credo, mai stato una testa matta o un capriccioso; oh, però se c’è da divertirsi non sono uno posato, ma il lavoro l’ho sempre rispettato sin da quando ho deciso quale sarebbe stato il mio futuro professionale.
A che età?
A vent’anni, dopo aver vissuto in Svezia: a quel punto ho messo in conto i rifiuti e gli insuccessi.
Il viaggio in Svezia sembra un film di Verdone.
(Sorride) Lo capisco, e un po’ è così. Ma lì ho dei parenti e un cugino musicista e dj che con il suo gruppo è arrivato a suonare al Coachella (importante festival californiano, ndr); comunque è stata un’esperienza formativa.
Oltre a Sanremo ha vinto un David con il brano Che vita meravigliosa.
Sì, sempre durante le chiusure in pandemia, tanto che la cerimonia era organizzata da remoto; (cambia tono) io da solo in casa, seduto sul divano; (ride proprio) ricordo Carlo Conti prendere la busta, leggere la formula di rito, fino a quando pronuncia il mio nome. Mi alzo in piedi, sollevo le braccia felice e all’improvviso sento delle bordate alle pareti di casa.
Delle che…?
Bordate: il vicino stava seguendo la cerimonia e per festeggiare si era accanito con il muro e urlava “dai cazzo!”.
Un vicino partecipe.
Persona integerrima: è un professore di religione; dopo il David, così come con il Festival, mi sono arrivati attestati magnifici, mi hanno fatto sentire parte di qualcosa.
È pronto a diventare attore?
Qualcosa mi hanno proposto, ma devo ragionarci.
Le piacerebbe?
Il cinema è una passione grande, mi sono laureato al Dams; un giorno mi piacerebbe anche tentare la regia.
Girerebbe una scena di sesso?
(Parte una serie lunga di insulti bonari) Dovrei saperlo un anno prima, per diventare fisicamente presentabile.
A vent’anni come impegnava la vita.
Oltre alla musica? Studiavo e lavoravo come cameriere.
Il cameriere è un classico.
Lavoro difficilissimo visto il contatto con il pubblico, però mi sono divertito e ho imparato a capire chi ho di fronte, soprattutto quando i contatti sono con i clienti alterati; comunque nel frattempo ogni tanto mi dedicavo al cinema come comparsa.
Tipo?
In Compagni di scuola (serie televisiva del 2001, ndr) ho incontrato tantissimi attori poi diventati famosi, come Scamarcio, la Capotondi e soprattutto Michele Riondino.
Entrambi tarantini.
Ci siamo presentati lì, mentre le nostre mamme sono cresciute insieme. Ora siamo molto amici.
Secondo Lillo i momenti negativi sono fondamentali per la creatività.
Lo capisco, quando si è felici si pensa a quello che accade nel momento, al presente, mentre la scrittura chiama la riflessione; però Che vita meravigliosa è nato dopo una serata meravigliosa, post concerto, in giro con gli amici a mangiare un panino in uno dei baracchini aperti fino a tardi: lì ho pensato, “cacchio, è tosta, è una vita piena di incertezze, però che figata”.
Quante volte ha rischiato di perdere questa vita meravigliosa?
Di morire?
No, professionalmente.
Quel pensiero uno lo affronta tante volte, ma abbandonare la musica mi faceva stare ancor più male; però a qualcosa ho rinunciato.
A cosa?
Ho perso persone care, lo ho trascurate, sono nate incomprensioni; a un certo punto mi sono concentrato sul giardino che avevo davanti, ho seminato quasi solo quello e ho trascurato le altre piante.
Però tra le nuove “piante” c’è Roberto Baggio: ha girato con lui.
È stato un sogno, non ci potevo credere. Sono realmente cresciuto con il mito di Maradona, e poi con il suo.
È così timido?
Persona molto delicata, percepisci la sua potenza. Poi è molto legato alla terra, uno in grado di ragionamenti profondi; (sorride) nel video giocavamo a Calciobalilla: con lui non c’è stata partita neanche lì.
Lei è una delle più belle voci italiane…
Un tempo neanche lo pensavo, anzi la odiavo: se qualcuno mi rivolgeva un complimento, pensavo che sbagliasse. Mi vergognavo.
Giuliano Sangiorgi pensava lo stesso della propria.
Giuliano spesso mi dice: “Che voce che hai, mannaggia a te”. Con lui siamo amici, ci vogliamo bene e seguo da sempre i Negramaro.
Farà mai il giudice di un talent?
Non mi è mai stato proposto, ma in questo momento non accetterei; però ho visto Manuel (Agnelli, ndr) e dopo il talent più felice, propositivo, acceso. A lui ha fatto bene.
Ha scritto il suo romanzo?
Ancora no.
È l’unico.
Ogni tanto ci penso, ma anche qui non è il momento.
Però è pronto per l’appuntamento dell’Uno Maggio.
È importante per continuare a denunciare la situazione; non posso credere che in un Paese civile la vita delle persone possa essere messa in pericolo per una industria. Nel nostro Paese siamo arrivati a mettere in contrapposizione il diritto alla salute con il diritto al lavoro, mentre nel quartiere Tamburi i bambini non possono andare a scuola se c’è vento né possono giocare nei parchi. Lì l’umanità è in secondo piano rispetto alla produzione.
Sono anni che è stato creato questo appuntamento.
Ritrovarsi, vedere che non si è soli, aiuta a cambiare la testa delle persone, dà coraggio e consapevolezza. Non si è più invisibili. Taranto è diventata una delle città culturalmente più attive, è bellissima e tanti ragazzi la stanno scoprendo.
E lei?
Sono andato via presto, sono scappato e ho costruito un muro, un muro che piano piano sto smantellando.
Si sente in colpa?
Non tanto, ma non mi sento tra chi ha dato inizio alla rivoluzione culturale tarantina. Eppure ho sentito un richiamo forte e cerco di dare una mano.
Chi è lei.
Batman anche se nessuno vuole essere Robin.