Tuttolibri, 23 aprile 2022
Riscoprire Francesco Tario
Negli ultimi giorni d’estate, sulla terrazza in riva al mare, mentre tutti cercano di capire cosa sia quella lancinante malinconia che trasmette la musica di un’orchestrina, un uomo sta bruciando d’amore per la donna accanto. Anche lei, probabilmente lo ama, lo si vede da sguardi fuggevoli, sospiri, sfioramenti. Suo marito è seduto al loro stesso tavolo, ma sembra più distratto dalle vele lontane all’orizzonte che da un probabile adulterio. E mentre il firmamento si riempie di stelle l’uomo innamorato continua a ruminare sulle possibili evoluzioni di quella passione spietata. D’un tratto, però, la donna comincia a svanire. Così come la realtà materiale lì intorno. Perché quel terzetto altro non era che un sogno del «marito», interrotto dal suono della sveglia mattutina. Si conclude così, con evidenti richiami a Borges a Rulfo o anche al classico assioma che «la vida es sueño» (o viceversa), Verso la fine di settembre, uno dei racconti più belli dell’antologia Fra le tue dita gelate, che ci rivela un magnifico autore messicano, Francisco Tario, capace di fondere nel crogiolo del fantastico allucinazioni gotiche, sogni, sensualità amorose. D’altronde la stessa vita di questo bizzarro picaro, il cui vero nome è Francisco Peláez, pare una burla. Nato a Città del Messico nel 1941, morì a Madrid nel 1977. Fu portiere professionista nella squadra di calcio dell’Asturias, apprendista astronomo, gestore di una sala cinematografica, perdigiorno caparbio, autore di libri e aforismi che piacquero ai grandi (tipo Octavio Paz) più che all’accademia.
L’antologia, ottimamente tradotta da Raul Schenardi, contiene 16 racconti, di disuguale qualità letteraria, ma tutti sorprendenti nel verso più etimologico della parola. Sono dedicati alla moglie Carmen, «magico fantasma» (furono le sue ultime letture prima di morire), che Tario, come un novello Orfeo, tenta di riportare spesso in vita attraverso la scrittura. Di tanti altri fantasmi sono popolati i racconti, dove l’andirivieni tra l’aldiquà e l’aldilà è pratica quotidiana. Come il defunto marito zoppo di Ave Maria Purissima, che tormenta la moglie perché s’è dimenticata di seppellirlo con la sua gamba di legno. Ogni notte il caro (non del tutto) estinto reclama l’orrida protesi e minaccia di tornare tra i vivi per ottenere anche qualcos’altro come un tempo, quando l’afferrò durante la prima notte di nozze con le sue mani ruvide, riempiendola di vergogna. E forse torna davvero, perché la vedova ostenterà per anni un morso sulla guancia, e se qualcuno gliene domanda l’origine, lei resta silenziosa, estasiata, poi di colpo scoppia in lacrime facendo un gesto osceno.
Più pimpanti sono i fantasmi del racconto L’esodo che vivevano felici in Inghilterra finché il governo nel 1928 non decide che sono troppi. Li cattura con una retata per confinarli in tristissimi luoghi sovraffollati. Molti sono costretti a espatriare per cercare felicità nel mondo, scontrandosi con le zanzare dell’Asia, la brutalità dei Balcani, il razzismo yankee, e l’indifferenza degli uomini contemporanei che non rispettano più gli spiriti. E pensare che loro, poverini, non hanno mai rotto le scatole più di tanto. Rispettano i vecchi manieri, pagano le tasse, si divertono con poco, facendo linguacce ai passanti. Sì certo, ogni tanto architettano uno scherzo babbeo, come quando hanno preso un poliziotto ubriaco, l’hanno trasportato nel letto di una donna addormentata che l’ha sbaciucchiato confusa dal dormiveglia ed è stata sgozzata dal marito ingelosito. Il femminicida però si è consegnato al suddetto poliziotto. E le cose si sono subito riaggiustate. Nell’universo allucinato di Tario troviamo bambini con teste immense che continuano a crescere per contenere sogni, e minuscoli esserini che escono dal rubinetto per invadere lo spazio domestico. Maschi che partoriscono e vegetariani che scoprono a tal punto le delizie della carne da divorare un paffuto neonato arrosto. Aristocratiche fanciulle che si innamorano di un cavallo e vecchie che capiscono che cos’è il Tempo. Il mostruoso rumore che tormenta la notte di un direttore vendite di un grande magazzino in trasferta può essere un semplice grillo, perché nulla è come appare. Talvolta la vittima può essere il colpevole, l’assassino confesso forse è un detective. Ma non è detto che Tario offra spiegazioni al finale.
In Assassinio in do diesis minore un ricco banchiere svanisce dalla sua camera dal letto. La notte in cui è scomparso si è sentito un gran rumore di specchio infranto. Non ha lasciato tracce. Nessuno è entrato né uscito dalla villa. Un mistero. Finché la consorte svela la «verità»: l’ha ucciso lei, perché la tradiva. Ogni notte entrava in quello specchio per incontrare la giovane amante in un’altra dimensione. Capisce commissario? Non ce la facevo più ad assistere ai loro amoreggiamenti riflessi nello specchio ai piedi del mio letto, confessa l’assassina con calma e un ghigno quasi folle. Ma c’è da credere a quell’assurda confessione su portali metafisici? E c’è da credere a chi racconta che in un manicomio è entrato un pazzo in bicicletta che comincia a pedalare per il Tour de France davanti agli occhi sbigottiti di alienati e parenti? A mezzanotte era ancora lì che sudava, e pure il giorno dopo, e poi per lunghi mesi. Possibile che a mezzo secolo dall’evento lo si veda ancora attraversare il giardino solitario senza mai fermarsi?
La ragione suggerirebbe di no. Ma i racconti di Tario sono una piccola sfida al «lettore», richiedono una partecipazione attiva al gioco di finzioni e realtà per definire bene dove corre (o sfuma) il confine tra l’una e l’altra. Più o meno come nella nostra vita quotidiana dove siamo sempre funamboli su un baratro di infinite possibilità. La nostra anima può essere cupa e limitata. Oppure aperta all’infinita luminosità della grazia, dell’amore, della gioia. Dipende solo quale delle due vogliamo nutrire. —