TuttoLibri, 23 aprile 2022
Intervista a Natasha Solomons
La scrittrice inglese Natasha Solomons è specialista nel dare voce a chi non ce l’ha. Come fa con la Gioconda di Leonardo da Vinci, protagonista e voce narrante in prima persona del suo ultimo romanzo Io, Monna Lisa. Come ha fatto con i protagonisti degli altri suoi romanzi, profughi ebrei di origine austriaca e tedesca, sbarcati in Inghilterra in cerca di salvezza, costretti a imparare non solo una nuova lingua, ma soprattutto un nuovo modo per stare al mondo e accordare la propria voce di partenza con quelle di approdo (I Goldbaum del 2019, Casa Teyneford del 2020 e Un perfetto gentiluomo del 2021, sempre per Neri Pozza).
Il problema della voce, di trovarne una efficace e credibile, è sempre prioritario per chi scrive. E lo è ancora di più per chi, come l’autrice, ha dovuto lottare da bambina con la dislessia. Grandi scrittori sono nati dislessici; lo furono Mark Twain e Victor Hugo, Jules Verne e Agatha Christie, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, e anche Lewis Carroll e Hans Christian Andersen. Superare lo scollamento del dislessico tra parola e forma scritta è qualcosa di affascinante, specialmente se a farlo è uno scrittore.
Con Natasha Solomons, 43 anni, che fino all’età di otto non riusciva a leggere, partiamo proprio da qui.
«Pensavo ci fossero due lingue separate: una dei suoni che parlavamo e un’altra degli scarabocchi su una pagina. Non mi rendevo conto che fossero collegate. Sembrava così ovvio e innato che gli insegnanti non ci hanno spiegato come il suono che fa la nostra bocca quando diciamo “mela” sia correlato alla parola “mela” su una pagina, e che entrambi rappresentano l’dea di una mela, o addirittura una mela stessa. C’era l’immagine di una bella mela nella nostra classe che doveva simboleggiare la parola, ma in qualche modo per me era del tutto svincolata dalla parola e dal significato».
Come faceva ad amare le storie che non poteva leggere?
«Mio padre mi leggeva tutte le sere e poi io ascoltavo le audiocassette prese in biblioteca. Era una scelta limitata a ciò che era disponibile e alcune delle selezioni a volte erano un po’ sconcertanti e anche deliziosamente intriganti, perché la scelta degli adulti era più ampia. Però mi hanno fatto capire il senso della narrativa: le nostre vite sono narrazioni che costruiamo e raccontiamo a noi stessi e gli uni agli altri».
Quando ha capito che voleva diventare scrittrice?
«Le storie erano la mia fuga. Quando ero giovane mia madre era molto malata, e quando le cose sono peggiorate, le storie sono state il mio rifugio. I mondi nella mia testa erano spesso migliori della vita reale. Anche adesso vivo due vite parallele: una con la mia famiglia e l’altra nel mio studio, a centinaia di anni e mille miglia di distanza. Non credo ci sia un momento o una scelta per diventare scrittrice. Vivevo semplicemente di storie e volevo condividerle con altre persone, per non essere sola. Ogni atto di scrittura è un pezzetto di speranza e connessione. Se la storia entra in sintonia con il lettore, allora ti senti un po’ meno solo».
A scuola gli insegnanti marcavano i suoi temi scrivendo: “illeggibile” o “senza speranza”. Come è riuscita a diventare una scrittrice?
«Da bambina è stato devastante vedere quelle frasi sui miei scritti. Mi sentivo soffocare e messa a tacere. Mi sedevo in un angolo piena di rabbia e lacrime. A volte mi meraviglio di saper scrivere, e di non essere ancora in quell’angolo, anche se quando sono agitata, tutto inizia ad aggrovigliarsi di nuovo. Penso di esserci riuscita negli anni successivi per pura forza di volontà. Ho avuto aiuto al liceo e all’università. La prima volta che ho provato a scrivere un romanzo ci sono volute più di venti bozze».
Cosa suggerirebbe oggi a un bambino dislessico per tradurre le idee in frasi?
«Penso che parlare ad alta voce aiuti molto. Registra il tuo lavoro su un computer e rileggilo o, se puoi, scrivilo e poi continua a rileggerlo ad alta voce. Sentire e sentire come suona una frase e ascoltarne il ritmo interno aiuta davvero».
Suo nonno era un rifugiato arrivato in Gran Bretagna da Berlino alla fine degli anni Trenta. È stato lui a ispirare le sue prime storie?
«Da bambina è sempre stato il mio primo ascoltatore, sempre paziente ed entusiasta. Il viaggio suo e di mia nonna in Gran Bretagna è stato parte della scintilla dietro il mio primo romanzo Mr Rosenblum’s List».
E suo marito David Solomons, sceneggiatore e scrittore, la aiuta o è di impiccio?
«Incontrare uno scrittore che si guadagnava da vivere scrivendo, faceva sembrare possibile il mio sogno. Prima di incontrare David, sembrava roba di fantasia. Mi dà anche ottimi consigli editoriali, anche se estremamente critici. Mi ha detto di chiudere in un cassetto il mio primo romanzo e di scrivere qualcosa di nuovo. È stato un ottimo consiglio, anche se doloroso in quel momento! Mi aiuta ancora. È il mio primo lettore, il mio più grande critico e il mio più fedele sostenitore».
Perché le piace indagare nel passato?
«Suppongo che mi piaccia scappare quando scrivo narrativa, e quindi scrivere di un luogo più distante sembra più un viaggio. Mi piace anche scoprire pezzi di storia che finora non sono familiari a un pubblico più ampio e guardarli idealmente in un modo insolito. Mi piace anche immergermi nella ricerca storica. Lo adoro e passo molti mesi persa tra libri e lettere e, se possibile, mi inabisso in viaggi di ricerca. Ho iniziato come ricercatrice universitaria e non credo che il brivido della scoperta mi abbia mai abbandonato».
C’è un certo tipo di romanzo storico, o se lo vogliamo chiamare di ambientazione storica, tipicamente inglese. A partire dalla maestra assoluta Hilary Mantel, crede che esista una nuova generazione di romanzieri inglesi di questo tipo?
«Ci sono certamente alcuni pezzi di narrativa storica davvero fantasiosi scritti oggi da scrittori inglesi. Ma ci sono sicuramente anche americani interessanti – ovviamente Madeleine Miller, ma amo anche Marissa Silver e l’australiana Hannah Kent».
Nei suoi romanzi precedenti ha raccontato di persone che hanno dovuto lasciare il loro paese per sfuggire alle persecuzioni e alla guerra. I rifugiati sono ancora una volta un tema centrale nella storia di questi tempi. Perché pensa che gli esseri umani siano così stupidi da ripetere gli stessi errori più e più volte, nonostante il fatto che la storia dovrebbe essere maestra di vita?
«Da bambini non impariamo mai dagli errori degli altri, impariamo solo dai nostri. Quando la mamma dice che la pentola è calda o che l’ortica punge, ma non le crediamo finché non la tocchiamo. Riguardo alla storia siamo tutti come bambini. Sfortunatamente, migliaia di persone soffrono mentre impariamo o non impariamo le nostre lezioni».
Perché ora un romanzo sulla Gioconda di Leonardo?
«Per secoli le persone hanno detto “sta solo aspettando di parlare” e ho pensato che se stesse parlando, semplicemente non stavamo ascoltando. Ho deciso che volevo darle una voce, per permetterle di raccontare la sua storia con le sue parole. Ci sono state molte storie su Leonardo Da Vinci, ma nessuna dal punto di vista della sua Gioconda. Il rapporto tra loro mi affascina: lui la adora, ma anche lei ricambia il suo amore. In questa storia, lei è un dipinto che non solo può essere guardato, ma può vedere. E, nel corso dei secoli, ha visto e sopportato molto».
Ha scritto questo romanzo perché come Monna Lisa per un certo periodo ha pensato di aver perso la voce…
«Dopo il mio ultimo romanzo per un po’ non sono riuscita più a scrivere. Ero persa e uno scrittore senza parole è una cosa rotta e inutile. È stato un periodo difficile e scomodo. Un giorno, stavo guardando una foto della Gioconda al Louvre, sigillata dietro i suoi strati di vetro e ho pensato che mi sentivo come lei: non una bella donna osservata ma una donna dietro un vetro, silenziosa. Speravo che se avessi restituito a Monna Lisa la sua voce, avrei potuto ritrovare la mia».
C’è molta ricerca storica dietro questo romanzo. Come ha lavorato? Libri, biblioteche, ha viaggiato nei luoghi di Leonardo, è stata in Italia?
«Ho letto tutto quello che ho potuto trovare su Leonardo Da Vinci e la Gioconda: biografie, saggi accademici, storie dell’arte. Ho avuto la fortuna di poter viaggiare a Firenze e Parigi prima del primo lockdown, e poi sono rimasta bloccata a casa. Le biblioteche erano chiuse e ho dovuto fare molti tour virtuali di luoghi come il maniero di Leonardo ad Amboise. Inoltre, avevo bisogno di più ricerche accademiche e non potevo raggiungere la British Library – così ho contattato il professor Martin Kemp, che è probabilmente l’esperto mondiale di Leonardo ed è stato fantastico – incredibilmente generoso e gentile. Mi ha inviato articoli e informazioni e nei diciotto mesi necessari per scrivere era sempre lì per ascoltare e dare entusiasmo».
La Gioconda è un’icona che attraversa i secoli. Scrive che l’arte è la parte eterna di noi. Leonardo ha dato voce alla Gioconda e questa lo ha reso in qualche modo immortale. Perché questo concetto è così importante per lei?
«Leonardo disse ai suoi assistenti che dovevano sempre cercare di creare il senso di qualcosa di nascosto o trattenuto, per evocare nell’opera d’arte una sensazione di possibilità inconoscibile. È più allettante, diceva, quando c’è il senso di qualcosa di nascosto piuttosto che mostrare tutto in una volta. Lo spettatore deve riempire quel pezzo nascosto con una parte di se stesso. Quella parte inconoscibile della Gioconda è ciò che vive da 500 anni. Il segreto è nostro e suo, e noi insieme a Leonardo le abbiamo dato la vita e l’abbiamo resa immortale. Mi intrigava anche l’idea di un dipinto vivente e senziente che continuava ad esistere dopo la morte del suo adorato Leonardo. Come ha vissuto il tempo e l’amore, dopo la sua morte?».